martedì, ottobre 10, 2006

Moneypenny

Image Hosted by ImageShack.us
L’appeso: Avvicina i suoi occhi ai miei e sono terribilmente strabici mentre tra noi passa qualcosa d’indefinibile e meraviglioso: una sorta di fluido, palpabile, irrefrenabile, che attira le nostre bocche mentre tutto il resto del mondo sparisce o forse non è mai esistito, come noi, che insieme siamo un sogno, ed io mi sveglio.
Poi mi giro. E accanto a me c’è altro: un seno perfetto, bianco e rosa, la pelle rilucente e setosa, la coscia statuaria che incrocia la mia gamba piegata nel nostro sonno scomposto, tra lenzuola dorate in un’alcova nascosta e lussuosa in qualche parte esotica di mondo dove io possa consumare, ancora una volta, il mio grande sacrificio – e prendere e godere, ed esser preso e goduto ancora e ancora per una notte intera, tra fiumi di champagne che accompagnano la morte del vitello, e schiere di menadi danzanti avviluppate in costumini di Chanel mentre tutto gira ed io, nel centro del vortice, tento di cancellare la morte, il vuoto, il mio non essere.
Mi chiamo Bond. E mio padre mi chiamava Jamie . …Devo ammettere che non fa lo stesso effetto.
D’altronde quando rimpiazzano il tuo passato con un numero queste cose hanno ben poca importanza, mentre alcuni particolari possono diventare fondamentali, come pretendere che il vodka martini in cui affogare ogni paura sia agitato e non mescolato perché mentre lo si trangugia si diventa freddi e perfetti, giusti e spietati, affascinanti e senza cuore. Così si guarda dritto negli occhi un nemico e si sa che presto sarà morto, ci si avvicina ad una donna splendida e inaccessibile certi che ci urlerà tra le braccia: basta affondare i denti nell’oliva da guarnizione per far la lama ad una volontà che penetri qualunque ostacolo, consapevoli di aver perso qualunque speranza.
E’ piacevole ascoltare da lontano il fruscio della piscina vuota che filtra di continuo l’acqua; poco più avanti il sole sembra accarezzare dolcemente il cofano della mia Aston Martin e insieme fanno l’amore, la bestia pulsante ammansita dalla dolcezza d’un unico raggio, in questo paradisiaco esilio da cui già so che fuggirò presto, alla ricerca di un altro po’ di azione, quella dose indispensabile d’adrenalina che mi fa dimenticare per un secondo di non avere una casa, di sentirmi, pur servendo la regina, tuttavia un apolide.
Ho già pronta la rosa rossa che lascerò accanto al suo cuscino mentre me ne andrò senza far rumore: dentro il messaggio implicito che ogni “ti amo” detto nel frattempo ne era sia petalo che spina, per cui come mio ricordo può bastare. Sono talmente tante ormai, tra le mie dita, le ciocche di capelli lasciate scorrere, le forme sinuose accarezzate, i baci sfiorati, morsi, succhiati, affondati… e le rose si confondono sopra i cuscini di ogni paese, dedicate a pelli d’ogni colore, sempre stupende, sempre desiderabili, sempre superflue e talmente facilmente rinunciabili che ognuna di queste scompare, all’istante, quando lancio il mio cappello sull’attaccapanni ed entro, arrogante e impertinentemente distaccato, nell’anticamera dello studio di M.
Sono così pochi i secondi che passano prima di esser ricevuto… giusto il tempo di qualche battuta, uno scambio rapido d’occhiate divertite e nulla più. Però tanto basta, può bastare quando rischiano di tremarti i polsi premendo il grilletto, o i piedi sembrano addormentarsi e farsi gelidi quando c’è da scappare, o si è legati e imprigionati, senza un barlume d’idea che aiuti a uscirne. Può bastare. Ed io non ho mai chiesto nient’altro, nient’altro che quel rapido minuto di felicità in cui torno ad essere un uomo senza una missione, un uomo con un giardino in una villetta di periferia, un cane, un barbecue e due figliuoli, un uomo che deve solo tornare dal lavoro e leggersi il giornale, sentire il profumo di cucina che lentamente sale, alzarsi e andare ad aiutarla perché di certo sarà stanca pure lei, e le sue dita gonfie, dopo un giorno passato a battere a macchina dispacci e un’enorme quantità di volti da dimenticare, di segreti da nascondere, di telefonate scomode da fare… perché anche lei merita riposo mentre qualcosa cuoce in forno, e merita le mie braccia attorno a sé, e merita l’amore, tutto l’amore che le può dare un uomo che non è costretto a uccidere da una licenza ogni volta che rivela il suo nome.
Ed ecco che il cappello è presto ripreso e calato in testa, i nuovi ordini ben stampati nella memoria: tutti i nomi, i volti e le date al loro posto; non mi resta che salutarla e ripartire, verso rischi inauditi e gambe lunghissime, verso nuovi orizzonti e nuovi oppi per una mente che ha già rinunciato, ha già deciso di non sporcare un sogno con una storia vera, una squallidissima storia vera tra una spia -che dovrà morire o ricominciare- e la segretaria del suo capo, coerente e ferma nella celeste ripetitività delle sue mansioni, perfetta nei suoi difetti normalissimi, bellissima in ogni sua piccola bruttezza, in tutta la sua routinaria persona, nella sua stupidità persino, da signorina bene cui ogni tanto sovviene un pensiero inappropriato, sfogato subito in una risatina nervosa e leggera.
Chiudo la porta dello studiolo e sono di nuovo in un film. Ritorno alle mie mirabolanti, noiosissime avventure; Q mi sta aspettando per mostrarmi qualche nuovo giocattolino da distruggergli il prima possibile solo per dispetto: sono io l’unico a dover sopravvivere ogni volta, l’unico pezzo irriproducibile in serie, inestimabile, su cui può riposare la tranquillità della nazione, nazione che non sa, in tutta la sua vastità d’uomini e sentimenti, pubblicità, palazzi e auto tamponamenti, stradine di campagna e musiche rock, sinfonie classiche e fiori di patate, come io riponga la mia tranquillità (e il mio capo nel sonno), su di una sola monetina: un piccolo penny arrugginito, unica proprietà vera della mia persona, che stringo in tasca per portafortuna e con cui giocherello sempre, unico ricordo della donna che amo perché questo è il suo cognome, e il suo nome io non lo conosco.
Tutto il resto di me è vostro, pubblico. Prendetene, prendetene ancora.
Nota: Qui ho voluto rendere una figura celeberrima come James Bond in una chiave completamente diversa: da vincente ne ho fatto un vinto, un uomo consapevole della propria immagine e vittima di questa, che non può fare a meno di "darsi" pur non essendo in grado di muovere in alcun modo il proprio destino come vorrebbe. Un appeso, appunto, la cui corda è intessuta delle sue stesse vittorie. (A tutte le commensali di sabato scorso giù nella verandina della Guinness, dove mentre parlavo di tutt'altro mi è venuto in mente questo brano)

Etichette: ,