venerdì, settembre 29, 2006

Il miracolo

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L’Eremita: Guardalo se puoi, guardalo attraverso i miei occhi. E’ bianco ed è così piccolo che posso coprirne il volto col palmo della mano. Si lamenta che pare un gattino e non c’è bisogno di capire in che lingua per vedere che è finito. Questo non passa la notte, non ce la fa. Allora parliamoci chiaro io e Te.
Non credo di doverTi più di una qualsiasi altra anima sulla terra: sudo, fatico, desidero e soffro non di più e non di meno. Come un qualsiasi verme godo puntualmente della Tua grazia quotidiana: sono consapevole che dietro ogni alba c’è la Tua mano e che chi non lo capisce può venirmi a dire di aver letto tutti i libri del mondo ma si dimostra ignorante lo stesso, perchè non sa leggere nella natura, dove tutto Ti chiama e in ogni cosa facilmente può riconoscersi la Tua firma.
Persino per come sono lo devo a Te: sei Tu che mi hai fatto solitario per carattere, che mi hai dato questo corpo gigantesco perché meglio potessi lavorare la terra e sostentarmi coi miei soli mezzi, ancora Tu che mi hai creato da due genitori determinati a farmi conoscere già da bambino la via spirituale e infine… sei Tu, sempre Tu, ad avermi allontanato dai miei per ficcarmi controvoglia a morire in questo paese dall’accento moscio. Per di più io Ti ho servito sempre, per bene e senza un lamento… e quando c’è stato bisogno di portare la Tua bandiera fra gli uomini senza macchiarla sono stato io quello che ha inveito contro i tuoi stessi autoproclamatisi “ministri”, così come contro ogni altro guerrafondaio abbia avuto a portata di mano: non ho guardato in faccia a nessuno, come una bombarda ho attraversato pericoli e difficoltà abbattendo qualunque ostacolo alla realizzazione di una comunità pacifica e serena, comunità che Tu mi hai affidato! Sempre, sempre sono stato Tuo: Ti sono appartenuto in ogni fibra, fino alla parte più minuscola di me mi son dedicato ad essere un Tuo strumento e adesso Tu sai, perfettamente, che siamo pari.
Da qualche parte, nel suo palazzo nerofumo lurido dei rimasugli di battute di caccia e fetido d’oro, il re sta morendo.
In ginocchio questo grandissimo complottatore, quest’anima stupida che si è accontentata sempre di desiderare ciò che non aveva, dimodiché ottenutolo non ha comunque riempito di nulla il vuoto che si portava nell’anima, ha mandato messi fino a Paola e per anni ha rimestato nelle corti napoletane e papali per avermi presso di lui, in questo paese freddo e piovoso, solo perché “lo guarissi”. Ma che cieco! Alla fine gliel’ho anche detto: “Tu mi hai costretto a raggiungerti fin qui, hai ottenuto anche questo ma alla fine sai? Nulla ti appartiene davvero, è tutto in prestito quello che chiami tuo e quando è venuto il momento di tirare i conti sei risultato un pessimo affidatario: hai solo debiti, troppi debiti… perciò non ti aspettare che ti venga concesso null’altro, anche se è l’unica cosa di cui davvero hai bisogno. Rassegnati invece, e cerca di capire cosa fare di te nel frattempo.” …Ma Tu pensi che mi abbia dato ascolto? Piuttosto che guardarsi in faccia ha preferito disobbligarsi con me (per cui sono un prigioniero chiamato “ospite”) ma nel frattempo ecco cosa fa quello stolto: manda i suoi dottori in giro a tirar via sangue fresco ai bambini e avidamente ne trangugia, la bestia, convinto così di suggerne la vita! Ecco in che modo si prepara a crepare! …Ed io mi trovo qui, in questa casa di morti di fame, a vegliare su questa creatura che sta sfiorendo per lui. Mi guarda terrorizzata, ha paura del mio tunicone nero e della barba lunga, magari pensa che la morte abbia il mio volto e che, come un mostro da fiaba, sia venuto a portarlo via.
Ora… tra noi… penso di poterlo dire, con i miei sessantotto anni suonati, che ho avuto una vita ben strana… già soltanto questo gregge di pecoroni meno lanuti del solito vede un loro simile che non ami la compagnia del gruppo che subito è pronto a classificarlo: o pazzo o sant’uomo; nel mio caso la seconda ma solo perché ero cresciuto in chiesa. E dunque: ti piace stare per i fatti tuoi? Benissimo: eremita. Ma solo perché non amo i chiacchiericci da villaggio? No! Anche perché faccio i miracoli! E che miracoli!
Un giorno viene da me un ragazzetto con una piaga sul braccio. “Aiutami, padre, aiutami!” Tié. Io gli schiaffo sopra un po’ d’arnica e quello guarisce. “Miracolo! Miracolo!” Maccome, è opera del Signore! Mica l’ho fatta io l’arnica, l’ha fatta lui: ha pensato alla varietà, ha modellato il seme, ha buttato giù un po’ di pioggia che lo nutrisse, ha pensato bene di circondarlo di terra per trattenervi l’acqua e infine me l’ha pure fatto crescere vicino all’orto, insomma… io che c’entro? Ma quello niente: “Miracolo! Miracolo!” E vabbè.
“Francesco, facci vedere come vivi! Tienici con te!” …Volete dare una mano? D’accordo! Facciamo una casa comune, scaviamo le fondamenta: un bel momento m’appoggio sfracco sul mio bastone e quello cede, crolla il terreno per mezzo metro e puffete! Sotto c’è acqua. Ottimo, ci serviva proprio un pozzo… macchè: “Miracolo! Miracolo!” Perché? Ce l’ho forse pianta io quella fonte lì, lacrima per lacrima? No! E allora? Allora niente: “Miracolo! Miracolo!”.
La barca sullo stretto… eravamo tre disgraziati con manco una lira e il barcaiolo ci dice “fregatevi”. Cosa fare? Prendo quattro assi fetenti sulla spiaggia, mi faccio il segno della croce per non colare a picco e sperando in mare buono uso il mantello per vela. Grazie a Te arriviamo sani e salvi non ostante sta pazzia e… indovina? “Miracolo! Miracolo!” …A un certo punto, visto che oramai avevo perso il controllo di questa faccenda e arrivava gente a frotte da ogni parte, ho incominciato ad approfittarmene: avevamo una trota cui qualcuno s’era affezionato, poi un giorno un poveraccio di frate la vede, la ruba e se la magna. Io me ne accorgo, gli faccio due urli in testa e po’ me faccio una risata, nel pomeriggio esco e me ne pesco un’altra. Cosa succede? “Incredibile! La trota è resuscitata! E’ identica!” Ma perché, capoccioni vuoti, non sono tutte uguali? Ah, no? Va bene, allora si: è un miracolo! E da adesso in poi tutti vegetariani, così per lo meno la prossima volta so che non siete stati voi! E quella volta da Ferrante? “Padre, padre, vogliate accettare una elemosina!” Tu? Tu vuoi dare una moneta d’oro a me, pezzente che affami il tuo popolo quando potresti renderlo libero? E poiché sono forte, con due dita zac! Gliela spezzo in due. Solo che mi scheggio e inizio a sanguinare. Quello zotico superstizioso s’impressiona e a me la cosa piace assai… sai che c’è di nuovo? È il sangue del tuo popolo questo, che sgorga dal denaro! E fatti un bell’esame di coscienza!
Ecco. Tutto qua quello che ho saputo combinare. A volte mi sento come se fossi invecchiato per nulla, così: a tradimento. Eppure ogni volta che parlo tutti ammutoliscono in sacro silenzio, non sapendo che mi sento un impostore. In ogni caso, qualcosa di buono ho fatto e Tu lo sai: non è mai stato facile ma a volte è stato divertente e poi c’eri sempre Tu che mi riempivi all’improvviso dei tuoi doni di gioia, nei momenti più impensati e per i motivi più futili, perché ami le sorprese ed hai un cuore bambino. Allora lo sai perché sono a questo capezzale, e non ostante sia abituato alla malattia ed alla morte io non mi voglia arrendere a cederTi ancora quest’anima, perché questo visino pallido è stato strappato al gioco da un vampiro superficiale e ignorante e non ostante Tu sia meraviglioso io credo che anche viverTi su questa terra non è meno bello, per cui non pregherò perché il più velocemente possibile, senza più soffrire, egli ti raggiunga. La gente spesso si rivolge a te dicendo “Dolce Gesù”… ma io lo so che sai essere anche duro e deciso, che non temi il dolore degli uomini perché possiedi la sofferenza come uno scettro senza mai abusarne, ma riconoscendo in essa il più grande strumento di sapienza… c’è una certa ineffabile grazia, allora, nella Tua fermezza. E anche quella diventa un dono. A volte insopportabile, come un amore la cui passione diventa intollerabile da sostenere, consuma. Sai essere burbero, Signore, e in questo un po’ ci assomigliamo. Perciò non starò ad esporti motivazioni che possono valere solo in questa terra: lungi da me convincerTi, visto che Tu sai quello cha fai. Solo Ti dico: c’è una madre qui di fronte a me che piange perché ha venduto il sangue di suo figlio… avrebbe dato il suo ma non lo volevano. Il padre è fuori, perché non può permettersi di farsi fermare dalla tragedia quando ci sono bocche da sfamare e ovunque sia ha il cuore nero. Poi ci sono io, il “sant’uomo”, distolto dalla mia solitudine e di corsa chiamato qui a tentare l’impossibile, ciò di cui non sono né sarò mai capace ma che tutti si aspettano, chissà perché, proprio da me. Il miracolo. A volte sai, Amico Mio, è più facile credere in Te se Ti si vede negli occhi di qualcuno… e in fondo perché no, visto che in realtà ami albergare nell’essenza di ogni cosa…
Allora adesso a noi, Vecchio Compagno. Perché è arrivato il momento di farmi un piacere. Non ho mezzi per pretenderlo da Te ma un po’ me lo aspetto: in fondo ci si conosce da una vita io e Te e mentre io sono un Francesco qualunque Tu, che cavolo, sei Dio! Perciò senti bene che farò: poggerò forte entrambe le mani sul viso del piccolo e chiuderò gli occhi. Per fare un po’ di scena partirò a recitare tutte quelle preghiere-standard con cui ci si rivolge a Te ma in realtà cercherò di radunare ogni mia forza, ogni parte di me …anche il fiato, io glielo donerò. Poi sta a Te. Se proprio non puoi salvarci entrambi dai a lui e togli a me e che cresca come un bue! (che almeno sia degno della mia stazza) …oppure lascia tutto come sta. Perché in fondo la fede è irragionevole e io so che non smetterei di credere che in ogni caso Tu sia stato giusto, forse perché dietro ogni mia amarezza si nasconde un inguaribile ottimismo. Come andrà? Come non andrà? …Che ne so… Sento addosso il brivido di chi si sta per buttare nel vuoto… E’ eccitante, è forte, è da morire di paura.
Va bene. Io vado.
Nota: Mi sono chiesta a lungo se seguire l'ordine numerico dei tarocchi oppure l'ordine cronologico di stesura dei brani e alla fine ho optato per quest'ultima scelta volendo procedere come se durante la lettura mi avviassi a scoprire gli arcani senza conoscerne dapprima la sequenza. Vedremo che ne esce fuori. In questo brano mi sono divertita a "demistificare" Francesco da Paola (una figura che curiosamente mi accompagna sin da piccola) evidenziandone la santità non nei miracoli ma nella sua umanità. A tal scopo ne ho attualizzato il linguaggio ed ho cercato di esprimermi in maniera molto libera, colloquiale, ma sopratutto semplice. Nell'impostazione certamente può leggersi un'influenza dello "Jeoshua" di Bulgakov e probabilmente dell' "Oscar" di Eric-Emmanuel Schmitt. Il vampirismo di Luigi XI è una leggenda che circola davvero, così come i "miracoli" raccontati sono alcuni tra quelli che di solito si attribuiscono al mistico. (A Ross che mi ha dato una bella mano con le fonti e da cui traggo sempre nuovi stimoli spirituali)

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domenica, settembre 24, 2006

L'ultimo incantesimo

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Il matto: Mi son perso la spada per la via. Anche l’armatura lucente era ormai troppo pesante: adesso fa da rugginosa dimora ai gatti. L’anello lo tengo ancora, in ricordo di Nimue, ma tanto non mi è mai servito a niente. Per tutta la vita ho creduto potesse proteggermi dagli incanti, da quando lasciando il lago m’inoltrai per le strade dell’uomo, ma in realtà sono sempre stato inerme come adesso e, in più, tronfio delle mie illusioni.
Ti ho amato, Ti ho servito, Ti ho sacrificato la mia dignità, Ti ho obbedito sempre, Ti ho desiderato in ogni fibra come l’organismo vuole l’aria, Ti ho protetto. Per Te ho distrutto regni, ho mandato in pezzi i sogni miei e di altri, ho tradito un amico, ho imbevuto il Tuo letto del mio sangue e nel farlo, Amore, dolce e sola malìa, ho smarrito me stesso. Dovevo essere un campione, sono il ritratto di un debole.
Eppure ho camminato su un filo di spada, sepolto valenti guerrieri, danzato con le fate. Ma a che pro, se poi non sono che l’ultimo nella sfilza delle Tue vittime? Il più umile degli uomini in tutto mi equivale ed anzi forse Ti si sarà arreso con più sforzo. Chissà che sembianze avrai preso ai suoi occhi, se un dolce volto o magari un corpo desiderabile soltanto… non certo le sue iridi color rugiada e le sue labbra umide: quelle erano per me, per me soltanto, e nella sia pur disonorevole sconfitta me ne faccio vanto che, di tutte le Tue forme, hai scelto Tu, per me, la più meravigliosa. Si, Nemico mio adorato, con me sei stato abile davvero: mi hai preso l’intelletto e l’hai disintegrato nel Tuo volere, ogni senso l’hai rubato al mio sentire per dedicarlo a Te e persino il mio corpo m’hai strappato, perché sempre vagassi nell’ansia e nel disagio, incompleto e deforme, fino all’attimo in cui mi congiungevo, in Te, a me stesso.
Mira adesso la mia povertà: s’è vero -come sempre asserivo quando cavalcavo a fianco dell’uomo che costruiva regni d’idee brandendo, affilata, un’utopia- che ogni possedimento appartiene ai più che vi abitano, allora anche questa veste che indosso non è mia ma delle pulci… giro per il mondo così, tra macerie d’ideali e senza un desiderio che mi sopravviva, attendendo soltanto che Tu mi finisca… ma appare ormai chiaro che di me Ti sei dimenticato da tempo, ed è la Tua indifferenza ciò che fa più male, anche se alla Tua crudeltà ormai sono avezzo.
Non ricevendo stimoli da questo presente così vecchio, ecco che mi perdo in fantasie funeste le quali, inevitabili, portano a Te; mi fermo così a considerare il momento in cui Ti ho ceduto e come nessun’arte guerresca o magica, tra quelle che avevo appreso, mi possa esser servita a smascherarTi; infine, a furia di rifletterci, penso di aver capito come ciò sia successo: hai carezzato, Tu, o Impareggiabile, l’unica tentazione che abbia mai sfiorato la mia anima candida –l’ambizione al bene. Così hai impastato carne e fiato a costruire una creatura di specchio, che per natura chiamasse a sé la mia essenza e la chiudesse nel suo ventre senza però restituirmi mai nulla di più che la mia solitudine e, fredda al tatto, la consapevolezza di sfiorare con le dita ciò che mai avrei potuto toccare davvero, perché ciò cui appartenevo apparteneva a un altro. Ed ecco la trappola: cosa può ambire al bene se non il bene stesso? E se dunque quel bene era in me, ed io ero in lei, non era forse quel bene in lei stessa? Ma lei era del re, dunque il re possedeva il bene. In questo modo nella mia follia io ambivo a entrambi e così facendo credevo nella mia bontà. Però è venuto il giorno in cui quest’innocenza s’è disvelata mostro. In nessuna impresa mai fera più orribile ho incontrato di quella lacrima non pianta, disposta intorno alla pupilla spenta come a cullarne il dolore, nello sguardo deluso e stanco del mio signore, nascosto tra le rughe. Quanto avrei preferito che egli mi giudicasse, che mi mandasse a morte. Ma la sua incapacità di difendersi dal tradimento era talmente inclemente! La sentivo addentarmi il collo, lasciandomi senza respiro e senza parole, suscitando in me solo paura e debolezza, in me, che di quell’uomo m’ero nutrito come d’una leonessa il pargolo per poi, infame, morderle il seno. Allora mi voltai a guardare la mia signora, sperando di trovare ancora in lei un briciolo dell’antica luce, ma ancora una volta ella rifletteva la mia immagine, appunto, muta e disperata della mia scoperta.
Da allora vago in giro senza alcuna meta; a volte sono triste, a volte sono allegro e sempre senza un perché: non stimo la mia vita più di un cane, di una pietra o della stessa polvere… ed ogni tanto, a ricordarmelo, la pioggia mi copre di fango. Ogni cosa, intorno, è trascorsa… ma nelle mie muffe io appaio immutabile: anche i miei tratti han preso qualcosa d’antico ed inutile, come uno scoglio che sopravviva ad ogni maroso. E così è sempre più raro che qualche anima dabbene, accostatasi per una elemosina frettolosa, nello scorgere sul palmo della mano tremante una cicatrice profonda che sale sino alla punta del mignolo teso e immobile, per un secondo sgrani gli occhi non osando ficcarli nei miei e in punta di labbra sussurri “Sir Lan…” per poi convincersi della sua stupidaggine, piantarci forte una moneta dentro e tornare alle sue oneste verità. Molto mi piace quel momento, in cui mi convinco che un altro pezzetto di mondo è pronto a dimenticare le mie inutili gesta, e sorrido sdentato in commossa gratitudine. Poi mi giro e proseguo… un po’ più avanti, un po’ più avanti.
Nota: Inizia qui la serie di monologhi più attuale, quella che ho voluto dedicare ai Tarocchi. Da tempo mi diletto nello studio e nella pratica di quella che considero un'arte: la "lettura" delle carte. Più di ogni altra cosa ciò che mi affascina è l'universo di simboli che ogni arcano racchiude in sé, accumulato in secoli e secoli di cultura. Quel che con questa operazione voglio fare è trovare ad ogni "personaggio" degli arcani un volto, una storia tra le tante che sono atti a contenere e- nello stesso tempo- far si che il protagonista stesso del monologo possa a sua volta essere voce di un sentire diffuso, in cui potersi in qualche modo identificare. (a Beth, ancora una volta, perchè mi ha tanto infarcito di cultura celtica che il risultato -davvero inusitato per me- è questo! poi ad un'altra persona che "il y a pour quelque chose" e poi... a me)

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martedì, settembre 19, 2006

E poi, all'improvviso, le stelle

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Il paziente dell'ospedale di Jung: Un vetro che s'appanna piano. La mia vita, come qualsiasi altra dopotutto.
Chi io sia me lo sono chiesto tante volte dopo d'allora ma è come se non me lo fossi chiesto mai più, come se... sa, un punto di domanda... che si allunghi all'infinito entro di me, mi superi sempre.
Quella melodia fantastica e inebriante, quel ritmo tribale pulsante, incostante, stonato, puro, la vita, quel continuo girare di cerchi che contengono una retta, le strade, la strada, il tempo e tutte le altre cose significanti e insignificanti. Il sogno.
Si signore, sono stato innamorato.
Ma mai normalmente, nossignore: "normale", vede, io non sono stato mai -ma innamorato... come il vento d'inverno, quello gelato che spazza alberi e spolvera neve, sempre più impetuoso e violento e duro viva Dio! vivo, vivo come la notte, vivo come l'energia che contiene, che commuove, che ammazza e partorisce uomini, sempre, ad ogni istante, uomini nuovi. Innamorato come la farfalla più delicata e variopinta -sono vecchie metafore, lo so!- che vola come noi si cammina, per fatto naturale, soltanto.
Soltanto.
Innamorato soltanto.
E d'altronde, d'altronde... ero piuttosto elegante nel mio paltò blu, non crede?
La sera era fredda davvero ma poi io ero abituato, al freddo, da un po' di tempo ormai.
Di lei? Le dirò... non so nulla. Nulla ricordo, se non che forse era brutta, ma poi null'altro, perchè c'è altro che ricordo.
Ricordo i suoi occhi.
E qui dico "suoi" perchè non voglio fare la figura del folle che sono ma in realtà quegli occhi appartenevano soltanto a loro stessi, erano due entità autonome, distaccati da tutto e silenti, come due laghi mobili neri al centro o, come dice una certa canzone, "occhi che ragionate"... Ed io, dal primo momento in cui li vidi, vi trovai la pace: in realtà non era che guerra nascosta da un momentaneo appagamento del desiderio, eppure più dolce dell'oppio stesso m'appariva, il bene da me più ambito, più ricercato tra le macerie di un'anima già stanca, affaticata, vinta.
La resa. Che parola delicata!
Quest'amabile subire, questo lasciarsi scorrere, fino alla fine... lo vede? già era una mia inclinazione! E abbandonarsi ad essi senza proferir parola, guardandoli e solo guardando divenir contento: questa era facile avventura!
Io l'amavo questi occhi perchè erano "belli et fieri" ma poi aspri e ronzanti come la selva mediterranea, mitici come satiri silvani, intensi come profumi orientali, veloci e irrequieti come bambini nel gioco, densi come fumo d'incenso, spirituali come lo spirito stesso.
A volte ancora ritornano, nelle mie notti d'ombra in questa sobria, linda, bianca stanzetta... ed io faccio il più innocente dei sogni sognando di chiuderli e baciarne le palpebre -e mai nessun sogno mi è più reale di questo, ché sento nella saliva il loro sapore, addirittura, e le labbra poggiarsi sul lieve tremito e le lacrime scaldarmi gli occhi e così, mentre eternamente protraggo l'apnea del mio cuore (e preferirei morire piuttosto che staccarmi da essi), d'improvviso, sempre troppo presto, essi svaniscono dissolvendosi, mentre ripidamente ascendo ai livelli della realtà e mi ritrovo nell'aria fredda di primo mattino, a protendere ancora le labbra al nulla.
Distanti.
Il destino è una macchina strana: dopo d'allora non mi chiedo più dove potrà portarmi... fatto sta che io avevo chiesto, disperatamente, e mi era stato dato. L'amore: trovato.
Ma come!
E' crudele la forma che supera di mille volte la sostanza ed io voglio credere, debbo credere, che quegli occhi in realtà fossero prigionieri, schiavi di una mente crudele abbastanza da dotarli di un marito banale, spesso dimentico di tributar loro anche solo uno sguardo perchè troppo impegnato ad andarci a letto... eppure io -accecato- speravo ancora e m'illudevo e tremavo al pensiero che alla fine, dopo tanti fulmini spercati, questi avessero capito, che, consumati dai miei sguardi, avessero accettato.
Un giorno o l'altro, nell'eternità, io mi decisi. (Ecco dottore, sta per finire il "drammone d'amore").
Andai da lei veloce, veloce glielo dissi: alla morte con coraggio! ...Quasi glielo sbattei in faccia il mio amore -in maniera poco educata in verità, tutto il contrario rispetto ai miei modi abituali- e dovevo sembrar Cambronne che urla "merde!" agli inglesi perchè poi mi ritrovai fucilato.
...Un moto di paura, misto a disgusto, misto a sorpresa e ferma disapprovazione moralistica ma-oh!- di quel moralismo così becero, basso, ignorante! ...condito di sfuggente occhiatina alla croce in seno e sfociante in un dolce, tremendo, crudele, ipocrita sguardo che riassumeva il tutto in una pruriginosa pietà. E basta.
Quella limpida innocenza con la frusta in mano, non tanto il diniego, mi decisero a chiuderla lì e mai, dottore, proposito fu più ferreo perchè niente pareva trattenermi più in quel corpo e neppure il disgusto riusciva a occupare la mia mente quanto il nulla, il più nero nulla che in pratica era già morte.
E allora eccomi là, nel mio paltò blu, perfettamente curato ed elegante, scendere dalla vettura a Ruperchtsplatz, sorpassare la nostra chiesa più antica resa ancor più vecchia dalla notte e avviarmi, il naso arrossato dal freddo, verso Franz-Josef Kaiser strasse, percorrendo Vienna che se ne infischiava di me, Vienna non ancora del tutto ben illuminata, puntando verso il Marien bruche.
Perchè proprio lì? esattamente non so... da un lato era più isolato (sull'altra sponda il Prater animato solo da prostitute tranquille) ma più che altro io sono sempre stato -e resto- un romantico sentimentale che, tronfio della sua stessa decadenza, aveva deciso di buttarsi dal ponte di Maria... dunque di certo molto era dovuto al nome; ad ogni modo... nessuna pietra al collo, ovviamente... di suicidi quale quello che volevo per me se ne registra una gran quantità all'anno e sapevo perfettamente che corrente e gelo sarebbero di certo bastati...
L'aria da neve del diciotto ottobre millenovecentotrentadue, i miei guanti di pelle imbottiti, documenti per il riconoscimento nel taschino interno della giacca e la balaustra da scavalcare dinanzi a me. Sa dottore, quei gesti meccanici che uno fa per abitudine... una folata di vento principiava a rubarmi il cappello... a quel punto che contava? -ma lo tenni ben fermo calcandomelo in testa con la mano; poi, sempre automaticamente, mi posi a sedere sul cornicione, mi girai e i miei piedi galleggiavano nel vuoto.
Lo vede dottore? Lei è ancora così giovane (non ostante sia già -a detta dei più- un "dottorone", tanto che le hanno dato proprio me da studiarsi perbenino) che non si capacita della mia attuale lucidità ma, vede, è solo l'effetto che precede il sonno in un caso molto strano di schizofrenia e domani se ne renderà ben conto quando mi vedrà, spento e solo, morire in un angolo di letto come la più trista delle figure inseguendo con lo sguardo mille scintille aeree per poi gettarmi disperatamente a ridere, disperatamente, e a guardare, guardare tutto quello che c'è intorno perchè tutto quello che c'è è vita e si muove... però non urlo io -basta che lei non mi tocchi- né mordo: sono un matto "buono". Lei mi osserva in un modo... non mi guardi così: è così che mi sono perso, per sempre... si salvi, lei, si volti dall'altra parte.
Che era notte l'ho detto. Una bellissima notte -respiro- una notte stupenda, frizzante... chissà se mi capiterà più una notte del genere per morire... ma che pensieri truci! suvvìa, un po' di allegria: adesso arriva il bello!
Il nero nel mio cuore, nella mia mente, intorno a me, che si spandeva come nebbia... uno stato -o forse un non-stato- che promanava dalla mia persona come un'aura e poi si svaporava attorno ingrigendo di sé l'aria fredda... il senso del vuoto... nulla per cui valga la pena di vivere, neanche le lacrime, neanche più la disperazione... il vaso di pandora vuotatosi del tutto: neanche più la speranza.
Giù. Vuoto chiama vuoto, vuole vuoto. Non avevo mai alzato la testa da quando ero in quello stato, neanche per sbaglio.
Dottore, i miracoli esistono: adesso ne sono sicuro. Crediamo di poterne fare a meno, crediamo di poterli ignorare o sminuire oppure a volte neanche li riconosciamo -i miracoli, in fondo, sono piccole cose- ...io quella notte ebbi il mio minuscolo miracolo privato: alzai la testa.
E poi, all'improvviso, le stelle.
Signore! Che stelle! Le stelle più belle e brillanti dell'universo s'erano date tutte appuntamento al mio capezzale quella notte! Quale immensità, quale siderale silenzio, quale profonda, profana antichità, quale saggezza, quale amore, quale crudeltà, quale infinito baciarsi di opposti mi si parava davanti in tutta la sua perfetta imperfezione!
Signore! Quale ira!
Un infermiere bastardo ebbe a dirmi una volta, durante una crisi di demenza di cui purtuttavia serbo pallida qualche memoria, che mi si era "fritto il cervello"... ebbene io qui riconosco che egli aveva perfettamente ragione! mi si è in quell'attimo realmente "fritto il cervello"! E sfido chiunque a provarmi il contrario!
Dottore... lei non è altro che un povero dottore poco malato, e con tutta la sua razionale coscienza dal ritmo per nulla intermittente non vale un millesimo di me che sono il nulla, di me che quella sera ho perso me per sempre, per sempre... e sono stelle, solo stelle, già stelle.
Dovevo morire? Forse dovevo morire, forse quegli occhi mi avrebbero dovuto sterminare, oppure avrei dovuto vivere e vivendoli dimenticare... ma io già sono vita, dottore, vita all'essenza, energia cosmica... e quegli occhi son divenuti parte di me, come bene e male, come ogni cosa... dottore, Signore! Io sono spazio infinito!
Lo vede? lo vede? già il suo volto appare più sollevato: finalmente inizia il delirio! Non lo capite proprio voialtri... non lo potete vedere, stolti! Io sono tutto, quindi sono nulla, e il corpo che mi contiene è solo un'infinitesima parte di quello che sono: io sono!... non sono.
Ma è solo per questo che mi trovo qui, le lacrime agli occhi per l'infinita commozione, proprio come mi trovò la polizia mentre danzavo nudo, ridendo, in mezzo alla strada... tutto gira, tutto gira... mentre tutto si mantiene così stabilmente, solidamente fermo... posso sentirlo, il moto planetario e quello degli astri, e quello dei corpi e quello delle creature... lo sento, potente e prepotente, fin nelle mie corde: è nelle mie ossa!
Si, ha ragione... potevo pure morire, già che mi trovavo... ma che senso ha uccidersi se poi sono già finito e poi non finirò mai comunque? Me lo dica lei, dottore!
Ah! Ritorna quel ronzio insopportabile, quel mal di testa che mi straccia il cranio!
La prego, sia gentile, il calmante.
Nota: Scritto a diciott'anni. Come a questo punto si può vedere raffrontando i vari brani, il tema della follia è centrale in me. L'idea per questo, in particolare, mi è venuta leggendo per caso, in una prefazione ad un libro, che Jung aveva descritto in uno dei suoi testi il caso di un uomo che assumeva essere della stessa sostanza delle stelle. Ho cercato invano quel passaggio ma ne ho scritto comunque. Penso che si percepisca benissimo l'influenza delle mie letture del tempo, in particolare Bulgakov, Durenmatt e Mann. Mi è piaciuto anche prendere il cliché del "suicida malato d'amore" e stravolgerne la trama proprio alla fine.. magari un giorno questo gusto mi porterà alla novella surrealista, chissà. Nel frattempo, con questo ho esaurito tutti i miei "vecchi monologhi", che non ho cambiato molto nel trascrivere qui anche se in gran parte non ne condivido più l'impostazione. Da adesso in poi il blog verrà aggiornato solo per contenere i miei lavori più recenti. (Ad una persona specialissima, che mi ha rivoluzionato la vita e che ancora non ho dimenticato)

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sabato, settembre 16, 2006

Nel labirinto

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Teseo:
Mi sono perso.
Riesco ancora a sentire il fiato caldo che sa di sangue
rappreso, gli ispidi peli da belva sudata, il battere infernale
del cuore che vola dal petto
ma non lo sguardo, indimenticabile, che forse era il mio...
E comunque ora morto.
Sono qui.
Potessi almeno capire se é giorno o notte,
oppure un'interminabile alba, o forse
un interminabile crepuscolo...
ma persino il sale stesso
di questi concetti mi sfugge
e nulla mi é più lontano
di quello che mi è vicino.
Non so dire di sicuro
nemmeno se sono seduto o all'impiedi
o forse, chissà, sto camminando
e non lo so
e le incognite sono ovunque,
nelle incognite stesse,
perché io sono un grande ignorante.
Le parole stesse
mi terrorizzano:
sono come questo posto,
nuove di zecca, vecchie di secoli,
sempre mutabili e quindi eterne...
per quanto mi riguarda,
in definitiva,
potrebbero essere questo posto stesso
e di più non mi ci soffermo a pensare
perché sono già stato pazzo
e poi mi sono ucciso.
Potrei credere d'essere un viaggiatore,
comunque non so mai cosa imparo
e per adesso tutto ciò che mi viene in mente é un pocket coffee
che quando ero piccolo non mi piaceva affatto
mentre adesso mi sgranocchio volentieri,
sempre, però, se sono cresciuto.
O nato, oppure...
ma sinceramente me ne frego delle filosofie
perché, anche se é un bel problema,
adesso non mi pare di amare proprio nulla
e anche nulla è un bel problema
epperò non me ne frega niente lo stesso
in quanto che forse sono per noia.
Ma amo tanto la vita
-quel che sia-
solo che ogni tanto mi lascio suggestionare
e poi questa specie di amnesia non mi dà pace
mi prende come un'onda lunga
portandomi dove non si tocca
e può sembrarmi persino
di annegare volentieri...
però poi mi trascina, nuovamente,
su lidi che ricordo conosciuti
ma che poi non riconosco
e allora penso a quanto debbano esser state piacevoli
le egoistiche lacrime che vi ho pianto
però poi ho nostalgia degli abissi
e tanta voglia di affogare in un destino prestabilito,
nel mio regno intestino,
come un feto dentro una puerpera.
Da giovane mia mamma mi ha fatto alzare una pietra,
sotto c'era una spada ed io ero un eroe
poi sono cresciuto ed ho mangiato molti fanciulli
poi ho vagato tanto,
tanto,
poi mi son morto
-e adesso dove sono finito?
Il tutto è andato complicandosi
e avrei davvero finito
(aggiunto tutto il resto, non c'è molto più di me in definitiva)
se non fosse per il filo.
Il filo è una cosa importante.
Questo lo so ma chiedermi il perchè vale quanto il chiedermi
se e perchè io debba morire...
che senso ha? che senso non ha?!
...ma perchè solo sofismi?!
Il filo è l'origine.
Lo vedo, che si perde oltre le mie spalle indefinitamente,
oltre ove persino non riesco a guardare,
oltre,
eppure é già nella mia mano
così com'é altrove,
come se fosse ovunque
però non lo lascerò mai andare:
è davvero tutto quello che ho, se mi appartiene,
ed é ormai come una parte stessa del mio corpo,
fuso nella carne del palmo;
però non é sempre stato mio
e mi é stato donato
come se qualcuno potesse donarmi me stesso:
per questo é tanto prezioso,
come una meravigliosa
ossessione...
finalmente qualcosa di cui vantarsi.
Io credo, poi, che porti da qualche parte...
però avanti o indietro o qui,
non so.
E prima o poi bisognerà partire,
incominciare o ricominciare,
dal momento che oramai ho costruito
o forse trovato
o imitato, pure,
una mia fede.
Riconsidererò il sole adesso
e tutte le mie stelle e poi
mi ricorderò di ringraziare
qualcosa,
forse qualcosa che ho sacrificato,
ma non può morire di sicuro per sempre.
Come me,
che potrei essere un bravo funambolo
sul filo
che assume forme strane
e a volte non è mai sempre del tutto dritto
né del tutto curvo
e cadere non ha importanza,
é cosa da mettersi assolutamente in conto,
ma poi forse alla fine non si cade mai...
comunque mi dà fastidio divagare
così a volte -sempre e mai-
detesto.
M'innamoro.
Qualcosa/uno mi potrebbe salvare.
Accenderò un fuoco,
potrei diventare un bel fumo
che si perde da qualche altra
parte...
raggiung...
Nota: Questo è un brano più recente che risente un po' di dottrine simboliste e un po', nella forma, del teatro futurista (n.b. il formato del testo imposto dal programma lo invalida pesantemente: nell'originale infatti ogni riga si dispone in maniera differente e autonoma rispetto all'ordine del paragrafo riempiendo in modo sinuoso la pagina). Volontariamente non ho rispettato alcuna regola grammaticale e ortografica cercando di badare più che al senso compiuto di ogni periodo alla sua musicalità e volendo trasmettere un senso di disordine e ricerca. Ogni confine sembra incompiuto, indefinibile eppure familiare. (A Sandra e Clara, che ci hanno creduto prima di me)

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mercoledì, settembre 13, 2006

Un salice cavalca il ruscello

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Ofelia: Dolce, dolce, dolce é il respiro del vento, dolce, sui miei capelli lisci, dolce, quando sfiorano le spalle, dolce il mondo che mi accarezza, lontano da tutto, più dolce ancora!
Ho avuto dodici anni.
Ma che stupido bambino colui che si finge pazzo quando già lo è! ...io lo so, oh, lo so adesso.
La primavera é in fiore e il mio bimbo mi ha fatto credere in molte cose... ma nessuno crede più in me ormai... hey, nonnonny, nonny... ed è strano come sia dolce tutto questo, già: proprio strano... ed il mio bambino crede di aver ragione, crede di avere vinto... ma che futile damerino! In questo soltanto ragione aveva: non lo voglio più. Ma tanto ha ucciso mio padre... come se me ne importasse! Ho solo pianto un po' ma adesso intreccio rime... capite? Intreccio rime!
Quant'ero piccola prima... m'innamoravo, persino... adesso ho centinaia di anni e sono amore... questo si chiama crescere! Sono pure più vecchia del fratello, quel buffo uomo d'onore... chi se lo ricorda più? Ma basta adesso parlare di storia, intreccio fiori adesso, capite? Intreccio fiori!
E poi, ora sì che faccio cose interessanti: canto, danzo e corro per i prati come in questo momento, vestita d'ampie vesti e quasi volando... e tutti dicono che sono cambiata ma non sono io... è tutto che, d'improvviso, è diventato così dolce...
Il fato m'ha fatto fata, fato crudele, ah! ...fato gentile! E quel che più vale é che io possa passeggiare sulle rive di questo corso d'acqua, nel silenzio percepire come la corrente scivoli via portando con sé la mia vita... tuffarmi nell'erba ronzante energia per lasciarmi corrompere dal sole... come cosa, come cosa, che sono, cosa, e non altro.
Non vedete la differenza? E quale sarà alla fine la sua soluzione? "Tutto il resto è silenzio!" ...Che stolto! tutto il resto è rumore, caos ed altro... per questo non c'è neanche il dilemma... Io non devo mettere ordine, io sono donna: io resto.
E qualunque cosa, anche la più turpe, non diventa mai vendetta ma putrefazione... ed io putrefaccio già, ad ogni respiro: presto non sarò che un teschio ma anche i vermi sanno esser dolci... ed io muoio piano, dolcemente.
Ho perso il senno, ho preso il senno. Già gli odori delle piante mi si fanno più vividi, più vividi i colori, e i sapori in bocca mutano continuamente come le stagioni negli anni, nei corpi.
Quanta vita vive una farfalla?
Già il salice cavalca il ruscello, già le parole sono state scritte, e nel cadere tirerò giù con me una nuvola di foglie e fiori, una pioggia bianca e azzurra, rosa, viola, gialla e verde, e per un secondo camminerò in essa. Sembrerà fatalità, così come lo sembrò la follia, e i vecchi mi giustificheranno, e il pubblico ammutolirà o gemerà colpito... ma io avrò colto tutto ciò che v'è d'importante e dopo averne fatto tesoro lo spargerò ovunque, insieme alle mie polveri fertilizzanti... così partorirò quel che più mi piace, avendo già realizzato i sogni che non ho più.
Infine, dopo la terra e l'aria, sarà l'acqua ad accogliermi come alcòva: scenderò in profondità, negli abissi coperti di sassi, e non vedrò più il sole... poi mi ribellerò tanto perchè la metamorfosi non s'é ancora compiuta e il mio corpo deficia di spazio per contenermi tutta... ma la sofferenza creerà il passaggio e finirò come sono iniziata.
Bianco il sudario come neve in monte... un corpo bluastro un po' rosicchiato dai pesci affiorerà lentamente allo sguardo: prima una mammella, bianca nel verde delle ampie ninfee, poi la mano aperta a raccogliere una piccola pozza, i lunghi, sottili capelli bruni divisisi l'un dall'altro a creare un'acquatica aureola, un po' più in là, sconcio, un ginocchio e il resto pudicamente ascosto da alghe e verdi licheni, gli occhi aperti, sbarrati nel sole.
Dell'uomo poco, la natura ovunque... e tutto il resto sarà.
Nota: Ancora un lavoro dei miei diciassette, diciott'anni. In alcuni tratti la forma è volontariamente inaccessibile, sconnessa, ripetitiva e sgrammaticata ma volevo ricreare un tipo di pensiero che partisse da concetti reali per poi andar sempre più disperdendosi in sintonia con la "pazzia" della protagonista. Mi sono divertita a citare continuamente il testo originale di Shakespeare, come se Ofelia stessa conoscesse della sua sorte "melodrammatica": così, ad es., sono originali il titolo, la filastrocca e l'attacco del penultimo paragrafo. Mia intenzione era da un lato ricreare un'atmosfera un po' decadente (diciamo "preraffaellita"), dall'altro rivoluzionare la prospettiva amletica della vita e della morte contrapponendogli un modello arcaico, panistico e alchemico, dalla continuatività indubbiamente femminile. (A Valerio che ama le fate)

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domenica, settembre 10, 2006

I Prigioni

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Michelangelo: Ci sono momenti nella vita umana in cui gli occhi dell'individuo si spalancano ad analizzare la propria quotidianità con la stessa freddezza di chi la vedesse per la prima volta; allora mille e mille particolari nascosti di ciò che credevamo conoscere ci appaiono nitidi, stupendoci con la crudezza della loro evidenza -che pure non vedevamo- sicché cerchiamo di catturare l'immagine disvelatasi per un istante a noi sotto un altro punto di vista e ci concentriamo per prolungarne la visione. Proprio questo sforzo, però, ci costa l'oblio e così, mentre eravamo arrivati ad una comprensione quasi obbiettiva dell'apparizione, ecco che questa ci lascia in compagnia del solo nostro vecchio riflesso mentale; cerchiamo di ricordare? inutile: è tutto svanito e noi, poveri illusi, siamo tornati ad essere uomini.
Stamane "l'artista" s'é guardato allo specchio. Com'era vecchio e brutto e le sue mani, così ruvide e grinzose, callose e polverose come quelle di un operaio. Quel naso... quelle ciocche grigie! E ti stupisce, Michelangelo, d'esser a quest'età ancora casto?! Si... la religione! Già non ci credon gli altri e dovresti crogiolartici proprio tu, lurido bacchettone?! tu che, pazzo, hai pensato d'essere "superiore" proprio quando quella tua testa infarcita d'anatomia e mestiere la tenevi sempre bassa al desco dei lorenzi e dei giuli, solo perchè anatomia e mestiere non si mangiano? Uomo! Bestia! A che valgono discepoli e ammiratori se infine tu non sei che questo, con in più le mani brutte?! Lo specchio, spietato, ti rinfaccia quel che sei ...pure tu, stolto, mai hai voluto dargli retta. Hai creduto nell'anima; hai creduto nella carne ed hai creduto nella perpetua schiavitù dell'uomo. Ingenuo, hai scolpito i "prigioni": lo spirito straziato che cerca libertà dalla materia; così il bello dal brutto, il buono dal cattivo, il sublime dal deforme, l'uomo dall'uomo tu volevi separare! Ma l'innocenza, mio caro, l'innocenza è il peccato più terribile! Quello il primigenio, la nostra maledizione.
Riconsiderali adesso, i tuoi "prigioni"! non sono orribili nel loro esser sublimi e viceversa? persino il tuo acclamato "David" mai sarebbe apparso vivo se la tua ira non gli avesse sfellato l'alluce! Così quei "non finiti" tanto ansiosi di sgusciar via dalla pietra non ti sembrano adesso solo feti morti, ideali vuoti che la materia stessa vuole espellere da sé, disdegnante tali ingrati figli? no 'l contrario!
Carne e anima. tutta la tua arte per tale inaudita incoerenza solo perchè non hai mai pensato all'unità ed all'unicità di entrambe, solo perchè non hai mai pensato: "mutabile, si, ma non diverso, nel mio cuore e nel mio pensiero, fin tra le dita dei piedi e nei luoghi più celati: io sono questo!"
Come mi fan male le mani!
...E mi guardo intorno, vecchio, vedendo solo carni vibranti che si sprecano nel ricercare ciò ch'è sempre più immoto. Solo "prigioni", attorno a me, con occhi rivolti verso il basso e menti separate, sconsolate ed angosciate dalle dubbie ambivalenze delle loro azioni, che combattono senza posa solo contro quel po' di vita che hanno.
Occhi miei, vi prego! Guardate alto! Ridete, riempendovi di lacrime e strofinatevi forte sulle mani tremanti ma, per favore, non dimenticate mai più d'esser occhi! Finiamola con gli scismi!
E infine, debole come sono, davanti al mio Papa bacerò la croce una volta di più: morirò da gran cristiano.
Sono troppo vecchio per filosofie e smentite ...e in fondo non me ne interesso più tanto: ho già dato ma adesso, per me, questi particolari tecnici non hanno alcuna importanza.
Per l'ultima volta adempiremo a questa grande, futile ipocrisia.
Nota: Quando l'ho scritto avevo circa sedici anni. Quindi pietà. In ogni caso non ho mai avuto pretese di rendere il "mio" Michelangelo fedele a quello storico (e questo varrà per tutti i personaggi dei monologhi a seguire) nè d'imporre critiche artistiche di alcuna risma... non ne avrei nemmeno la competenza. (To Beth)

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