martedì, settembre 19, 2006

E poi, all'improvviso, le stelle

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Il paziente dell'ospedale di Jung: Un vetro che s'appanna piano. La mia vita, come qualsiasi altra dopotutto.
Chi io sia me lo sono chiesto tante volte dopo d'allora ma è come se non me lo fossi chiesto mai più, come se... sa, un punto di domanda... che si allunghi all'infinito entro di me, mi superi sempre.
Quella melodia fantastica e inebriante, quel ritmo tribale pulsante, incostante, stonato, puro, la vita, quel continuo girare di cerchi che contengono una retta, le strade, la strada, il tempo e tutte le altre cose significanti e insignificanti. Il sogno.
Si signore, sono stato innamorato.
Ma mai normalmente, nossignore: "normale", vede, io non sono stato mai -ma innamorato... come il vento d'inverno, quello gelato che spazza alberi e spolvera neve, sempre più impetuoso e violento e duro viva Dio! vivo, vivo come la notte, vivo come l'energia che contiene, che commuove, che ammazza e partorisce uomini, sempre, ad ogni istante, uomini nuovi. Innamorato come la farfalla più delicata e variopinta -sono vecchie metafore, lo so!- che vola come noi si cammina, per fatto naturale, soltanto.
Soltanto.
Innamorato soltanto.
E d'altronde, d'altronde... ero piuttosto elegante nel mio paltò blu, non crede?
La sera era fredda davvero ma poi io ero abituato, al freddo, da un po' di tempo ormai.
Di lei? Le dirò... non so nulla. Nulla ricordo, se non che forse era brutta, ma poi null'altro, perchè c'è altro che ricordo.
Ricordo i suoi occhi.
E qui dico "suoi" perchè non voglio fare la figura del folle che sono ma in realtà quegli occhi appartenevano soltanto a loro stessi, erano due entità autonome, distaccati da tutto e silenti, come due laghi mobili neri al centro o, come dice una certa canzone, "occhi che ragionate"... Ed io, dal primo momento in cui li vidi, vi trovai la pace: in realtà non era che guerra nascosta da un momentaneo appagamento del desiderio, eppure più dolce dell'oppio stesso m'appariva, il bene da me più ambito, più ricercato tra le macerie di un'anima già stanca, affaticata, vinta.
La resa. Che parola delicata!
Quest'amabile subire, questo lasciarsi scorrere, fino alla fine... lo vede? già era una mia inclinazione! E abbandonarsi ad essi senza proferir parola, guardandoli e solo guardando divenir contento: questa era facile avventura!
Io l'amavo questi occhi perchè erano "belli et fieri" ma poi aspri e ronzanti come la selva mediterranea, mitici come satiri silvani, intensi come profumi orientali, veloci e irrequieti come bambini nel gioco, densi come fumo d'incenso, spirituali come lo spirito stesso.
A volte ancora ritornano, nelle mie notti d'ombra in questa sobria, linda, bianca stanzetta... ed io faccio il più innocente dei sogni sognando di chiuderli e baciarne le palpebre -e mai nessun sogno mi è più reale di questo, ché sento nella saliva il loro sapore, addirittura, e le labbra poggiarsi sul lieve tremito e le lacrime scaldarmi gli occhi e così, mentre eternamente protraggo l'apnea del mio cuore (e preferirei morire piuttosto che staccarmi da essi), d'improvviso, sempre troppo presto, essi svaniscono dissolvendosi, mentre ripidamente ascendo ai livelli della realtà e mi ritrovo nell'aria fredda di primo mattino, a protendere ancora le labbra al nulla.
Distanti.
Il destino è una macchina strana: dopo d'allora non mi chiedo più dove potrà portarmi... fatto sta che io avevo chiesto, disperatamente, e mi era stato dato. L'amore: trovato.
Ma come!
E' crudele la forma che supera di mille volte la sostanza ed io voglio credere, debbo credere, che quegli occhi in realtà fossero prigionieri, schiavi di una mente crudele abbastanza da dotarli di un marito banale, spesso dimentico di tributar loro anche solo uno sguardo perchè troppo impegnato ad andarci a letto... eppure io -accecato- speravo ancora e m'illudevo e tremavo al pensiero che alla fine, dopo tanti fulmini spercati, questi avessero capito, che, consumati dai miei sguardi, avessero accettato.
Un giorno o l'altro, nell'eternità, io mi decisi. (Ecco dottore, sta per finire il "drammone d'amore").
Andai da lei veloce, veloce glielo dissi: alla morte con coraggio! ...Quasi glielo sbattei in faccia il mio amore -in maniera poco educata in verità, tutto il contrario rispetto ai miei modi abituali- e dovevo sembrar Cambronne che urla "merde!" agli inglesi perchè poi mi ritrovai fucilato.
...Un moto di paura, misto a disgusto, misto a sorpresa e ferma disapprovazione moralistica ma-oh!- di quel moralismo così becero, basso, ignorante! ...condito di sfuggente occhiatina alla croce in seno e sfociante in un dolce, tremendo, crudele, ipocrita sguardo che riassumeva il tutto in una pruriginosa pietà. E basta.
Quella limpida innocenza con la frusta in mano, non tanto il diniego, mi decisero a chiuderla lì e mai, dottore, proposito fu più ferreo perchè niente pareva trattenermi più in quel corpo e neppure il disgusto riusciva a occupare la mia mente quanto il nulla, il più nero nulla che in pratica era già morte.
E allora eccomi là, nel mio paltò blu, perfettamente curato ed elegante, scendere dalla vettura a Ruperchtsplatz, sorpassare la nostra chiesa più antica resa ancor più vecchia dalla notte e avviarmi, il naso arrossato dal freddo, verso Franz-Josef Kaiser strasse, percorrendo Vienna che se ne infischiava di me, Vienna non ancora del tutto ben illuminata, puntando verso il Marien bruche.
Perchè proprio lì? esattamente non so... da un lato era più isolato (sull'altra sponda il Prater animato solo da prostitute tranquille) ma più che altro io sono sempre stato -e resto- un romantico sentimentale che, tronfio della sua stessa decadenza, aveva deciso di buttarsi dal ponte di Maria... dunque di certo molto era dovuto al nome; ad ogni modo... nessuna pietra al collo, ovviamente... di suicidi quale quello che volevo per me se ne registra una gran quantità all'anno e sapevo perfettamente che corrente e gelo sarebbero di certo bastati...
L'aria da neve del diciotto ottobre millenovecentotrentadue, i miei guanti di pelle imbottiti, documenti per il riconoscimento nel taschino interno della giacca e la balaustra da scavalcare dinanzi a me. Sa dottore, quei gesti meccanici che uno fa per abitudine... una folata di vento principiava a rubarmi il cappello... a quel punto che contava? -ma lo tenni ben fermo calcandomelo in testa con la mano; poi, sempre automaticamente, mi posi a sedere sul cornicione, mi girai e i miei piedi galleggiavano nel vuoto.
Lo vede dottore? Lei è ancora così giovane (non ostante sia già -a detta dei più- un "dottorone", tanto che le hanno dato proprio me da studiarsi perbenino) che non si capacita della mia attuale lucidità ma, vede, è solo l'effetto che precede il sonno in un caso molto strano di schizofrenia e domani se ne renderà ben conto quando mi vedrà, spento e solo, morire in un angolo di letto come la più trista delle figure inseguendo con lo sguardo mille scintille aeree per poi gettarmi disperatamente a ridere, disperatamente, e a guardare, guardare tutto quello che c'è intorno perchè tutto quello che c'è è vita e si muove... però non urlo io -basta che lei non mi tocchi- né mordo: sono un matto "buono". Lei mi osserva in un modo... non mi guardi così: è così che mi sono perso, per sempre... si salvi, lei, si volti dall'altra parte.
Che era notte l'ho detto. Una bellissima notte -respiro- una notte stupenda, frizzante... chissà se mi capiterà più una notte del genere per morire... ma che pensieri truci! suvvìa, un po' di allegria: adesso arriva il bello!
Il nero nel mio cuore, nella mia mente, intorno a me, che si spandeva come nebbia... uno stato -o forse un non-stato- che promanava dalla mia persona come un'aura e poi si svaporava attorno ingrigendo di sé l'aria fredda... il senso del vuoto... nulla per cui valga la pena di vivere, neanche le lacrime, neanche più la disperazione... il vaso di pandora vuotatosi del tutto: neanche più la speranza.
Giù. Vuoto chiama vuoto, vuole vuoto. Non avevo mai alzato la testa da quando ero in quello stato, neanche per sbaglio.
Dottore, i miracoli esistono: adesso ne sono sicuro. Crediamo di poterne fare a meno, crediamo di poterli ignorare o sminuire oppure a volte neanche li riconosciamo -i miracoli, in fondo, sono piccole cose- ...io quella notte ebbi il mio minuscolo miracolo privato: alzai la testa.
E poi, all'improvviso, le stelle.
Signore! Che stelle! Le stelle più belle e brillanti dell'universo s'erano date tutte appuntamento al mio capezzale quella notte! Quale immensità, quale siderale silenzio, quale profonda, profana antichità, quale saggezza, quale amore, quale crudeltà, quale infinito baciarsi di opposti mi si parava davanti in tutta la sua perfetta imperfezione!
Signore! Quale ira!
Un infermiere bastardo ebbe a dirmi una volta, durante una crisi di demenza di cui purtuttavia serbo pallida qualche memoria, che mi si era "fritto il cervello"... ebbene io qui riconosco che egli aveva perfettamente ragione! mi si è in quell'attimo realmente "fritto il cervello"! E sfido chiunque a provarmi il contrario!
Dottore... lei non è altro che un povero dottore poco malato, e con tutta la sua razionale coscienza dal ritmo per nulla intermittente non vale un millesimo di me che sono il nulla, di me che quella sera ho perso me per sempre, per sempre... e sono stelle, solo stelle, già stelle.
Dovevo morire? Forse dovevo morire, forse quegli occhi mi avrebbero dovuto sterminare, oppure avrei dovuto vivere e vivendoli dimenticare... ma io già sono vita, dottore, vita all'essenza, energia cosmica... e quegli occhi son divenuti parte di me, come bene e male, come ogni cosa... dottore, Signore! Io sono spazio infinito!
Lo vede? lo vede? già il suo volto appare più sollevato: finalmente inizia il delirio! Non lo capite proprio voialtri... non lo potete vedere, stolti! Io sono tutto, quindi sono nulla, e il corpo che mi contiene è solo un'infinitesima parte di quello che sono: io sono!... non sono.
Ma è solo per questo che mi trovo qui, le lacrime agli occhi per l'infinita commozione, proprio come mi trovò la polizia mentre danzavo nudo, ridendo, in mezzo alla strada... tutto gira, tutto gira... mentre tutto si mantiene così stabilmente, solidamente fermo... posso sentirlo, il moto planetario e quello degli astri, e quello dei corpi e quello delle creature... lo sento, potente e prepotente, fin nelle mie corde: è nelle mie ossa!
Si, ha ragione... potevo pure morire, già che mi trovavo... ma che senso ha uccidersi se poi sono già finito e poi non finirò mai comunque? Me lo dica lei, dottore!
Ah! Ritorna quel ronzio insopportabile, quel mal di testa che mi straccia il cranio!
La prego, sia gentile, il calmante.
Nota: Scritto a diciott'anni. Come a questo punto si può vedere raffrontando i vari brani, il tema della follia è centrale in me. L'idea per questo, in particolare, mi è venuta leggendo per caso, in una prefazione ad un libro, che Jung aveva descritto in uno dei suoi testi il caso di un uomo che assumeva essere della stessa sostanza delle stelle. Ho cercato invano quel passaggio ma ne ho scritto comunque. Penso che si percepisca benissimo l'influenza delle mie letture del tempo, in particolare Bulgakov, Durenmatt e Mann. Mi è piaciuto anche prendere il cliché del "suicida malato d'amore" e stravolgerne la trama proprio alla fine.. magari un giorno questo gusto mi porterà alla novella surrealista, chissà. Nel frattempo, con questo ho esaurito tutti i miei "vecchi monologhi", che non ho cambiato molto nel trascrivere qui anche se in gran parte non ne condivido più l'impostazione. Da adesso in poi il blog verrà aggiornato solo per contenere i miei lavori più recenti. (Ad una persona specialissima, che mi ha rivoluzionato la vita e che ancora non ho dimenticato)

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