martedì, maggio 08, 2007

Ingannevole passo

Lei: Inizia piano, come dolce energia che porta le acque di un fiume, come un filo di vento nel cuore che prenda amorevolmente le membra e le guidi al suo canto invisibile… il pensiero si perde nell’attimo che il corpo consuma ed è già danza, gli occhi si chiudono ma è solo l’abbandonarsi quieto all’abbraccio dello spazio, la dichiarazione d’amore più semplice di una creatura alla vita, un sogno che muove i passi come un burattinaio… via dalla mia stanza, altrove, per tutta la casa!
Poi cresce e mi trascina… eccolo: il giovane uomo invisibile mi prende forte tra le braccia, posso andare più lontano, posso lasciarmi cadere e non cadrò, volare e precipitare, piroettare, e girare.. non mi fermerò! Sono felice, sono felice! Il tempo scorre languido: io vado più veloce, in me è musica inascoltabile e dannata, sono presa, sono conquistata, sono fuori della porta!
E cresce ancora! orgia dei sensi in cui tutto diventa folle e violentemente bello, onnipotenza dei passi, furore di braccia e gambe che s’incrociano distanti, armoniose, fanno l’amore tra loro i miei piedi, le mani sono bianche farfalle che si sfiorano in volo, i capelli riempiono l’aria di baci attorcigliati con rami di pruno e sono già lontana dal paese, lontana dalla strada, nei boschi!
Eccomi! La terra trema sotto il mio ritmo infernale, la realtà gira e si confonde in spirali sinuose che avvolgono i respiri concitati nel gioco, il sole tramonta rosso sulle mie labbra sanguinanti e le lacrime piante nell’ebbrezza della consunzione si fanno aria prima di toccare il suolo, così io più veloce fuggo e tutto intorno a me ruggisce nella notte, il freddo mi gela il sangue e l’anime dei morti mi compatiscono ma non più a lungo posso restare qui, altrove porto la mia danza!
Passo per un villaggio al suono della pioggia che cade: le ginocchia pesanti si stringono al suolo e le mani diventano artigli di rettile, inarrestabile nella guazza danzo la danza della giungla, il ventre scarnificato bacia le pietre e il mio corpo si apre impudico a pose oscene, da animale; così disperato un impulso razionale richiama gli istinti: strisciando e contorcendomi feroce riesco a bussare a una casa ma prima che aprano sono già oltre e mi raggiunge soltanto l’eco di un neonato che piange… danzo allora la ballata della paura ed eccomi: sono una maschera di terrore, in piedi mi dibatto graffiandomi il petto, urlo, mi agito come in preda a spasimi ma nel mio dolore ancora son bella: sbattuta, trafitta, umiliata, preda totale dell’altro da sé io so che comunque, inevitabilmente, figurerò bene nello spettacolo straziante… ma non ho tempo di pensare a queste cose che già cambia la mia performance e sono mattino: ballo volatile come l’aria pregna di rugiada, son dolce e celeste, quasi senza peso volteggio piano fra i campi, e non conta il tormento del mio corpo che brucia, non il fatto che i miei piedi sian coperti di piaghe: lucide su di essi risplendono le mie scarpette rosso fuoco, coprono meravigliose il mio dolore agli sguardi e il contadino abbagliato mi scambia per una fata.
O Angelo del Signore, tu me l’avevi detto! Ma perché punire così chi è innamorato del bello? Questo non capisco, beato Angelo del Signore! E spiegamelo tu, soldato strano dalla barba rossa! E’ forse un destino di chi desidera doversi in cambio disfare dell’anima?! Eppure se le guardo ai miei piedi, soldato barba rossa, ancora non mi persuado che nella loro bellezza sia morte! Se soltanto del loro desiderio potessi disfarmi! Ma questo mi lega, ed è loro il mio ballo: danza macabra, danza di passione, danza di chi si dona e in cambio non pretende nulla: tutto diventa chi sé stesso disperde, tutto diventa, e niente più ne resta. Danza, dannato mio corpo, danza!
Passano i giorni, passan le stagioni: ogni foglia d’erba sembra ch’io ho danzato, ogni tipo d’albero, spinoso, ruvido o dalla corteccia fine, tutti ho abbracciato nel pellegrinaggio elegante… e mi mischio alla gente nelle feste di piazza, e irrompo nei balli a corte: ovunque la mia immagine è adorata o disprezzata ed io sono male o bene, a seconda della musica.
Vengo ora dal mare e sembro una sirena incappata per sbaglio in una bolla d’aria: prima un movimento lento come di chi nuoti in destrezza, poi la patetica agonia di un merluzzo buttato su un ponte di nave; mi scuoto e rigiro sul dorso come annaspando e impolvero così il resto delle mie poche vesti stracciate: sono cresciuta danzando, danzando ho visto chi amavo morire, danzando ho accompagnato il feretro e sulle loro tombe ho ballato la morte e il nascere dei fiori sulle ossa mangiate dai topi, ho danzato la dimenticanza della gente e il tran tran di una massaia, ho danzato la sorte beffarda e la guerra e il raccolto… tutto ho danzato e adesso, innanzi al boia, danzo me.
E’ sera e la piazza è vuota: al suolo una pozza di sangue scuro soltanto resta, a testimonianza della esecuzione spettacolare. Divento un secondo una testa che rotola e catturo la sua attenzione: faccio così di una forca il mio ultimo palco. Potrei parlargli ma anche la voce danzerebbe con me ed un ululato melodioso e ipnotico trascinerebbe un altro nella mia stessa sventura, per cui non mi resta che illustrare ai suoi occhi disincantati l’azzerarsi della mia volontà, i dubbi che tutt’ora mi tormentano, gl’invincibili lacci che ancora mi legano al movimento e le mie tremende intenzioni. In un sospiro mi dice che toglie la vita, non può massacrare sogni, ma io gli spiego che quel che gli chiedo val molto meno. Non fa altre questioni: esegue senza convincersi, ruota veloce la lama nell’aria con precisione perfetta e mentre cado per terra mi chiedo se son morta o son ferma. Altrove il mio amore prosegue sanguinante a danzare, attraversa la strada e si porta più avanti nell’ingannevole passo, oltre il mio sguardo, più rosso del fuoco.
Nota: Questo brano reinterpreta una celebre fiaba di Andersen. M'interessava approfondire l'aspetto della metamorfosi espressiva che in una danza si può assumere e l'azzeramento della volontà che è medesimo nell'amore e nell'arte ed altro non è che dedizione totale. Il tono è volutamente lirico perchè vuole essere esasperato come, appunto, una danza concitata. (Ai miei momenti)

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giovedì, aprile 19, 2007

Domani

La ruota della fortuna: Già sembra estate e il morso del calore stringe alla gola come un cane, affannando il respiro come se l’aria scendesse nei polmoni più lentamente delle gocce di sudore dalla fronte sopra gli occhi e poi sulle labbra, più salate ed aspre delle lacrime, a incorniciare il movimento di un occhio che non riesce a sbarrarsi completamente nell’orrore di chi sa di aver capito tardi, e già il proiettile perfora il cranio, immediato e lento in un’agonia perplessa che è già morte.
Allora baciami, amore mio, baciami ancora… che domani può non arrivare o arrivare domani, che nessun tempo ha il senso delle tue braccia che mi conchiudono, e trascorre come la pelle sottile del tuo seno tra le mie mani inutili e come queste non sa carezzare ma solo comprimere, manipolare, stuzzicare. Dammi il tuo corpo adesso, ed ora il tuo amplesso: è solo una piccola camera d’hotel, solo una piccola, squallida Louisiana in maggio; non c’è terra che non sia la tua carne e sangue versato che non ti appartenga, non un parcheggio desolato di primo pomeriggio dove solo la nostra macchina riposa in attesa dell’urlo della banca, che valga il tuo sguardo triste che mi abbandona per non cercarmi, adesso che accarezzo la tua schiena per non intercettarne la traiettoria e non trascendere nella sua limpida teoria di fine; e non c’è termine al peggio e al nostro peregrinare di sogno in sogno, con banconote che passano da mani tremanti a iuta capiente e volano nell’aria tra spari e sangue, e le mangia la polvere delle nostre ruote all’eco di sirene rombanti e pianti di donna, e le mangia la polvere come mangerà noi più tardi… è solo questione di tempo, mio amore, è solo questione di volo…
Mi tremi addosso stringendomi come a consumare la notte, tieni gli occhi chiusi a lungo e poi li apri come a volermi bruciare: mi odi, mi ami, vorresti non fossi mai nato? Magari a quest’ora staresti a guardare i tuoi figli dormire, o in un letto sicuro protetta da chi sa di esser buono… e invece sei mia, la compagna di un uomo cattivo che mente, che beve, che ruba, che fugge… ma se conoscessi un modo per battezzare la mia anima imponendole un nome, di certo, signorina Parker, sceglierei il tuo… e la potresti così chiamare nel sonno se ci buttassero dentro e lei attraverserebbe sbarre, mura ed ecco, sarebbe da te; e la potresti chiamare dall’alto dei cieli o in fondo all’inferno perché non ha paura e mai al tuo richiamo potrebbe mancare… e adesso che sospiri forte nell’aria nera il tuo amore amaro, adesso che dolce ti muovi su me come il mare, prendi le mie labbra fra le tue e non ti staccare, che stando così possiam fingere d’essere eterni, chiudere nel silenzio il nostro abbraccio veloce e lento, sospendere il gioco dei battiti e spingere i cuori all’economia d’una pulsazione sola, come un sordo rintocco nel petto, dell’anime un ultimo grande respiro.
Poche ore di sonno avvinto al tuo fianco mentre sveglia mi senti dormire. Non c’è nulla da sognare che non mi appartenga di già. Mi desto che riposi ancora e tocca a me ora vegliare: scorgo il tuo profilo sul cuscino da dietro la spalla come una vallata che s’apra, oltre una collina, all’aurora. Io ti amo, si… ti amo. Se avessi uno specchio davanti mi troverei terribilmente patetico: con che coraggio divento romantico? Puzzo di sudore invecchiato e birra, e il tuo fiato sa d’aglio; questa stanza è lurida e l’orinatoio sfiata mentre le mutande per terra ricordano stracci da pavimento e sul comodino c’è una pistola. Volevo comperearti tanti vestiti rossi e uscire da tutta questa merda… credimi, avrei freddato chiunque per questo… e invece siamo qui, con la polizia sempre alle spalle e niente da desiderare… non è triste? Magari è solo una strana forma di felicità, umida e asfissiante come la primavera di questa terra, nella cui rigogliosa fioritura pasciono serpenti, alligatori e fiori dal ventre tumido color sangue; ed è questa la mia natura mentre ti divoro di baci… e ti stringo e ti graffio e tu in ricambio mi mordi… no, non è delicata affatto la nostra bellezza, ma putrida e ancestrale come gli umori che secerniamo infestando la società, noi tumori, noi dolci assassini di anime belle.
Usciamo dal tugurio freschi e profumati come rose, fuori ci aspetta una magnifica Ford V-8 Sedan color sabbia, un gioiellino, e sono appena le sette di mattina. Mi tieni la mano sulla coscia mentre guido cercando di farmi venire il vento in faccia e ho voglia di caffè, poi in prossimità dell’appuntamento rallento: è pieno di alberi e sterpaglia tutto intorno e riesco a sentire le api ronzare nell’erba ai lati della strada… sento anche qualcos’altro e mi volto appena: l’eco del tuo urlo trova solo lo spazio di un attimo.
Nota: Continuo nella chiave del poliziesco ma stavolta non mi discosto dal cliché perchè mi dà l'occasione di riflettere sulla banalità del maledettismo rispetto all'intensità del rapporto d'amore e indagare la dimensione che il tempo assume agli occhi di un fatalista. (A chi mi fa scrivere...)

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martedì, ottobre 10, 2006

Moneypenny

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L’appeso: Avvicina i suoi occhi ai miei e sono terribilmente strabici mentre tra noi passa qualcosa d’indefinibile e meraviglioso: una sorta di fluido, palpabile, irrefrenabile, che attira le nostre bocche mentre tutto il resto del mondo sparisce o forse non è mai esistito, come noi, che insieme siamo un sogno, ed io mi sveglio.
Poi mi giro. E accanto a me c’è altro: un seno perfetto, bianco e rosa, la pelle rilucente e setosa, la coscia statuaria che incrocia la mia gamba piegata nel nostro sonno scomposto, tra lenzuola dorate in un’alcova nascosta e lussuosa in qualche parte esotica di mondo dove io possa consumare, ancora una volta, il mio grande sacrificio – e prendere e godere, ed esser preso e goduto ancora e ancora per una notte intera, tra fiumi di champagne che accompagnano la morte del vitello, e schiere di menadi danzanti avviluppate in costumini di Chanel mentre tutto gira ed io, nel centro del vortice, tento di cancellare la morte, il vuoto, il mio non essere.
Mi chiamo Bond. E mio padre mi chiamava Jamie . …Devo ammettere che non fa lo stesso effetto.
D’altronde quando rimpiazzano il tuo passato con un numero queste cose hanno ben poca importanza, mentre alcuni particolari possono diventare fondamentali, come pretendere che il vodka martini in cui affogare ogni paura sia agitato e non mescolato perché mentre lo si trangugia si diventa freddi e perfetti, giusti e spietati, affascinanti e senza cuore. Così si guarda dritto negli occhi un nemico e si sa che presto sarà morto, ci si avvicina ad una donna splendida e inaccessibile certi che ci urlerà tra le braccia: basta affondare i denti nell’oliva da guarnizione per far la lama ad una volontà che penetri qualunque ostacolo, consapevoli di aver perso qualunque speranza.
E’ piacevole ascoltare da lontano il fruscio della piscina vuota che filtra di continuo l’acqua; poco più avanti il sole sembra accarezzare dolcemente il cofano della mia Aston Martin e insieme fanno l’amore, la bestia pulsante ammansita dalla dolcezza d’un unico raggio, in questo paradisiaco esilio da cui già so che fuggirò presto, alla ricerca di un altro po’ di azione, quella dose indispensabile d’adrenalina che mi fa dimenticare per un secondo di non avere una casa, di sentirmi, pur servendo la regina, tuttavia un apolide.
Ho già pronta la rosa rossa che lascerò accanto al suo cuscino mentre me ne andrò senza far rumore: dentro il messaggio implicito che ogni “ti amo” detto nel frattempo ne era sia petalo che spina, per cui come mio ricordo può bastare. Sono talmente tante ormai, tra le mie dita, le ciocche di capelli lasciate scorrere, le forme sinuose accarezzate, i baci sfiorati, morsi, succhiati, affondati… e le rose si confondono sopra i cuscini di ogni paese, dedicate a pelli d’ogni colore, sempre stupende, sempre desiderabili, sempre superflue e talmente facilmente rinunciabili che ognuna di queste scompare, all’istante, quando lancio il mio cappello sull’attaccapanni ed entro, arrogante e impertinentemente distaccato, nell’anticamera dello studio di M.
Sono così pochi i secondi che passano prima di esser ricevuto… giusto il tempo di qualche battuta, uno scambio rapido d’occhiate divertite e nulla più. Però tanto basta, può bastare quando rischiano di tremarti i polsi premendo il grilletto, o i piedi sembrano addormentarsi e farsi gelidi quando c’è da scappare, o si è legati e imprigionati, senza un barlume d’idea che aiuti a uscirne. Può bastare. Ed io non ho mai chiesto nient’altro, nient’altro che quel rapido minuto di felicità in cui torno ad essere un uomo senza una missione, un uomo con un giardino in una villetta di periferia, un cane, un barbecue e due figliuoli, un uomo che deve solo tornare dal lavoro e leggersi il giornale, sentire il profumo di cucina che lentamente sale, alzarsi e andare ad aiutarla perché di certo sarà stanca pure lei, e le sue dita gonfie, dopo un giorno passato a battere a macchina dispacci e un’enorme quantità di volti da dimenticare, di segreti da nascondere, di telefonate scomode da fare… perché anche lei merita riposo mentre qualcosa cuoce in forno, e merita le mie braccia attorno a sé, e merita l’amore, tutto l’amore che le può dare un uomo che non è costretto a uccidere da una licenza ogni volta che rivela il suo nome.
Ed ecco che il cappello è presto ripreso e calato in testa, i nuovi ordini ben stampati nella memoria: tutti i nomi, i volti e le date al loro posto; non mi resta che salutarla e ripartire, verso rischi inauditi e gambe lunghissime, verso nuovi orizzonti e nuovi oppi per una mente che ha già rinunciato, ha già deciso di non sporcare un sogno con una storia vera, una squallidissima storia vera tra una spia -che dovrà morire o ricominciare- e la segretaria del suo capo, coerente e ferma nella celeste ripetitività delle sue mansioni, perfetta nei suoi difetti normalissimi, bellissima in ogni sua piccola bruttezza, in tutta la sua routinaria persona, nella sua stupidità persino, da signorina bene cui ogni tanto sovviene un pensiero inappropriato, sfogato subito in una risatina nervosa e leggera.
Chiudo la porta dello studiolo e sono di nuovo in un film. Ritorno alle mie mirabolanti, noiosissime avventure; Q mi sta aspettando per mostrarmi qualche nuovo giocattolino da distruggergli il prima possibile solo per dispetto: sono io l’unico a dover sopravvivere ogni volta, l’unico pezzo irriproducibile in serie, inestimabile, su cui può riposare la tranquillità della nazione, nazione che non sa, in tutta la sua vastità d’uomini e sentimenti, pubblicità, palazzi e auto tamponamenti, stradine di campagna e musiche rock, sinfonie classiche e fiori di patate, come io riponga la mia tranquillità (e il mio capo nel sonno), su di una sola monetina: un piccolo penny arrugginito, unica proprietà vera della mia persona, che stringo in tasca per portafortuna e con cui giocherello sempre, unico ricordo della donna che amo perché questo è il suo cognome, e il suo nome io non lo conosco.
Tutto il resto di me è vostro, pubblico. Prendetene, prendetene ancora.
Nota: Qui ho voluto rendere una figura celeberrima come James Bond in una chiave completamente diversa: da vincente ne ho fatto un vinto, un uomo consapevole della propria immagine e vittima di questa, che non può fare a meno di "darsi" pur non essendo in grado di muovere in alcun modo il proprio destino come vorrebbe. Un appeso, appunto, la cui corda è intessuta delle sue stesse vittorie. (A tutte le commensali di sabato scorso giù nella verandina della Guinness, dove mentre parlavo di tutt'altro mi è venuto in mente questo brano)

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venerdì, settembre 29, 2006

Il miracolo

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L’Eremita: Guardalo se puoi, guardalo attraverso i miei occhi. E’ bianco ed è così piccolo che posso coprirne il volto col palmo della mano. Si lamenta che pare un gattino e non c’è bisogno di capire in che lingua per vedere che è finito. Questo non passa la notte, non ce la fa. Allora parliamoci chiaro io e Te.
Non credo di doverTi più di una qualsiasi altra anima sulla terra: sudo, fatico, desidero e soffro non di più e non di meno. Come un qualsiasi verme godo puntualmente della Tua grazia quotidiana: sono consapevole che dietro ogni alba c’è la Tua mano e che chi non lo capisce può venirmi a dire di aver letto tutti i libri del mondo ma si dimostra ignorante lo stesso, perchè non sa leggere nella natura, dove tutto Ti chiama e in ogni cosa facilmente può riconoscersi la Tua firma.
Persino per come sono lo devo a Te: sei Tu che mi hai fatto solitario per carattere, che mi hai dato questo corpo gigantesco perché meglio potessi lavorare la terra e sostentarmi coi miei soli mezzi, ancora Tu che mi hai creato da due genitori determinati a farmi conoscere già da bambino la via spirituale e infine… sei Tu, sempre Tu, ad avermi allontanato dai miei per ficcarmi controvoglia a morire in questo paese dall’accento moscio. Per di più io Ti ho servito sempre, per bene e senza un lamento… e quando c’è stato bisogno di portare la Tua bandiera fra gli uomini senza macchiarla sono stato io quello che ha inveito contro i tuoi stessi autoproclamatisi “ministri”, così come contro ogni altro guerrafondaio abbia avuto a portata di mano: non ho guardato in faccia a nessuno, come una bombarda ho attraversato pericoli e difficoltà abbattendo qualunque ostacolo alla realizzazione di una comunità pacifica e serena, comunità che Tu mi hai affidato! Sempre, sempre sono stato Tuo: Ti sono appartenuto in ogni fibra, fino alla parte più minuscola di me mi son dedicato ad essere un Tuo strumento e adesso Tu sai, perfettamente, che siamo pari.
Da qualche parte, nel suo palazzo nerofumo lurido dei rimasugli di battute di caccia e fetido d’oro, il re sta morendo.
In ginocchio questo grandissimo complottatore, quest’anima stupida che si è accontentata sempre di desiderare ciò che non aveva, dimodiché ottenutolo non ha comunque riempito di nulla il vuoto che si portava nell’anima, ha mandato messi fino a Paola e per anni ha rimestato nelle corti napoletane e papali per avermi presso di lui, in questo paese freddo e piovoso, solo perché “lo guarissi”. Ma che cieco! Alla fine gliel’ho anche detto: “Tu mi hai costretto a raggiungerti fin qui, hai ottenuto anche questo ma alla fine sai? Nulla ti appartiene davvero, è tutto in prestito quello che chiami tuo e quando è venuto il momento di tirare i conti sei risultato un pessimo affidatario: hai solo debiti, troppi debiti… perciò non ti aspettare che ti venga concesso null’altro, anche se è l’unica cosa di cui davvero hai bisogno. Rassegnati invece, e cerca di capire cosa fare di te nel frattempo.” …Ma Tu pensi che mi abbia dato ascolto? Piuttosto che guardarsi in faccia ha preferito disobbligarsi con me (per cui sono un prigioniero chiamato “ospite”) ma nel frattempo ecco cosa fa quello stolto: manda i suoi dottori in giro a tirar via sangue fresco ai bambini e avidamente ne trangugia, la bestia, convinto così di suggerne la vita! Ecco in che modo si prepara a crepare! …Ed io mi trovo qui, in questa casa di morti di fame, a vegliare su questa creatura che sta sfiorendo per lui. Mi guarda terrorizzata, ha paura del mio tunicone nero e della barba lunga, magari pensa che la morte abbia il mio volto e che, come un mostro da fiaba, sia venuto a portarlo via.
Ora… tra noi… penso di poterlo dire, con i miei sessantotto anni suonati, che ho avuto una vita ben strana… già soltanto questo gregge di pecoroni meno lanuti del solito vede un loro simile che non ami la compagnia del gruppo che subito è pronto a classificarlo: o pazzo o sant’uomo; nel mio caso la seconda ma solo perché ero cresciuto in chiesa. E dunque: ti piace stare per i fatti tuoi? Benissimo: eremita. Ma solo perché non amo i chiacchiericci da villaggio? No! Anche perché faccio i miracoli! E che miracoli!
Un giorno viene da me un ragazzetto con una piaga sul braccio. “Aiutami, padre, aiutami!” Tié. Io gli schiaffo sopra un po’ d’arnica e quello guarisce. “Miracolo! Miracolo!” Maccome, è opera del Signore! Mica l’ho fatta io l’arnica, l’ha fatta lui: ha pensato alla varietà, ha modellato il seme, ha buttato giù un po’ di pioggia che lo nutrisse, ha pensato bene di circondarlo di terra per trattenervi l’acqua e infine me l’ha pure fatto crescere vicino all’orto, insomma… io che c’entro? Ma quello niente: “Miracolo! Miracolo!” E vabbè.
“Francesco, facci vedere come vivi! Tienici con te!” …Volete dare una mano? D’accordo! Facciamo una casa comune, scaviamo le fondamenta: un bel momento m’appoggio sfracco sul mio bastone e quello cede, crolla il terreno per mezzo metro e puffete! Sotto c’è acqua. Ottimo, ci serviva proprio un pozzo… macchè: “Miracolo! Miracolo!” Perché? Ce l’ho forse pianta io quella fonte lì, lacrima per lacrima? No! E allora? Allora niente: “Miracolo! Miracolo!”.
La barca sullo stretto… eravamo tre disgraziati con manco una lira e il barcaiolo ci dice “fregatevi”. Cosa fare? Prendo quattro assi fetenti sulla spiaggia, mi faccio il segno della croce per non colare a picco e sperando in mare buono uso il mantello per vela. Grazie a Te arriviamo sani e salvi non ostante sta pazzia e… indovina? “Miracolo! Miracolo!” …A un certo punto, visto che oramai avevo perso il controllo di questa faccenda e arrivava gente a frotte da ogni parte, ho incominciato ad approfittarmene: avevamo una trota cui qualcuno s’era affezionato, poi un giorno un poveraccio di frate la vede, la ruba e se la magna. Io me ne accorgo, gli faccio due urli in testa e po’ me faccio una risata, nel pomeriggio esco e me ne pesco un’altra. Cosa succede? “Incredibile! La trota è resuscitata! E’ identica!” Ma perché, capoccioni vuoti, non sono tutte uguali? Ah, no? Va bene, allora si: è un miracolo! E da adesso in poi tutti vegetariani, così per lo meno la prossima volta so che non siete stati voi! E quella volta da Ferrante? “Padre, padre, vogliate accettare una elemosina!” Tu? Tu vuoi dare una moneta d’oro a me, pezzente che affami il tuo popolo quando potresti renderlo libero? E poiché sono forte, con due dita zac! Gliela spezzo in due. Solo che mi scheggio e inizio a sanguinare. Quello zotico superstizioso s’impressiona e a me la cosa piace assai… sai che c’è di nuovo? È il sangue del tuo popolo questo, che sgorga dal denaro! E fatti un bell’esame di coscienza!
Ecco. Tutto qua quello che ho saputo combinare. A volte mi sento come se fossi invecchiato per nulla, così: a tradimento. Eppure ogni volta che parlo tutti ammutoliscono in sacro silenzio, non sapendo che mi sento un impostore. In ogni caso, qualcosa di buono ho fatto e Tu lo sai: non è mai stato facile ma a volte è stato divertente e poi c’eri sempre Tu che mi riempivi all’improvviso dei tuoi doni di gioia, nei momenti più impensati e per i motivi più futili, perché ami le sorprese ed hai un cuore bambino. Allora lo sai perché sono a questo capezzale, e non ostante sia abituato alla malattia ed alla morte io non mi voglia arrendere a cederTi ancora quest’anima, perché questo visino pallido è stato strappato al gioco da un vampiro superficiale e ignorante e non ostante Tu sia meraviglioso io credo che anche viverTi su questa terra non è meno bello, per cui non pregherò perché il più velocemente possibile, senza più soffrire, egli ti raggiunga. La gente spesso si rivolge a te dicendo “Dolce Gesù”… ma io lo so che sai essere anche duro e deciso, che non temi il dolore degli uomini perché possiedi la sofferenza come uno scettro senza mai abusarne, ma riconoscendo in essa il più grande strumento di sapienza… c’è una certa ineffabile grazia, allora, nella Tua fermezza. E anche quella diventa un dono. A volte insopportabile, come un amore la cui passione diventa intollerabile da sostenere, consuma. Sai essere burbero, Signore, e in questo un po’ ci assomigliamo. Perciò non starò ad esporti motivazioni che possono valere solo in questa terra: lungi da me convincerTi, visto che Tu sai quello cha fai. Solo Ti dico: c’è una madre qui di fronte a me che piange perché ha venduto il sangue di suo figlio… avrebbe dato il suo ma non lo volevano. Il padre è fuori, perché non può permettersi di farsi fermare dalla tragedia quando ci sono bocche da sfamare e ovunque sia ha il cuore nero. Poi ci sono io, il “sant’uomo”, distolto dalla mia solitudine e di corsa chiamato qui a tentare l’impossibile, ciò di cui non sono né sarò mai capace ma che tutti si aspettano, chissà perché, proprio da me. Il miracolo. A volte sai, Amico Mio, è più facile credere in Te se Ti si vede negli occhi di qualcuno… e in fondo perché no, visto che in realtà ami albergare nell’essenza di ogni cosa…
Allora adesso a noi, Vecchio Compagno. Perché è arrivato il momento di farmi un piacere. Non ho mezzi per pretenderlo da Te ma un po’ me lo aspetto: in fondo ci si conosce da una vita io e Te e mentre io sono un Francesco qualunque Tu, che cavolo, sei Dio! Perciò senti bene che farò: poggerò forte entrambe le mani sul viso del piccolo e chiuderò gli occhi. Per fare un po’ di scena partirò a recitare tutte quelle preghiere-standard con cui ci si rivolge a Te ma in realtà cercherò di radunare ogni mia forza, ogni parte di me …anche il fiato, io glielo donerò. Poi sta a Te. Se proprio non puoi salvarci entrambi dai a lui e togli a me e che cresca come un bue! (che almeno sia degno della mia stazza) …oppure lascia tutto come sta. Perché in fondo la fede è irragionevole e io so che non smetterei di credere che in ogni caso Tu sia stato giusto, forse perché dietro ogni mia amarezza si nasconde un inguaribile ottimismo. Come andrà? Come non andrà? …Che ne so… Sento addosso il brivido di chi si sta per buttare nel vuoto… E’ eccitante, è forte, è da morire di paura.
Va bene. Io vado.
Nota: Mi sono chiesta a lungo se seguire l'ordine numerico dei tarocchi oppure l'ordine cronologico di stesura dei brani e alla fine ho optato per quest'ultima scelta volendo procedere come se durante la lettura mi avviassi a scoprire gli arcani senza conoscerne dapprima la sequenza. Vedremo che ne esce fuori. In questo brano mi sono divertita a "demistificare" Francesco da Paola (una figura che curiosamente mi accompagna sin da piccola) evidenziandone la santità non nei miracoli ma nella sua umanità. A tal scopo ne ho attualizzato il linguaggio ed ho cercato di esprimermi in maniera molto libera, colloquiale, ma sopratutto semplice. Nell'impostazione certamente può leggersi un'influenza dello "Jeoshua" di Bulgakov e probabilmente dell' "Oscar" di Eric-Emmanuel Schmitt. Il vampirismo di Luigi XI è una leggenda che circola davvero, così come i "miracoli" raccontati sono alcuni tra quelli che di solito si attribuiscono al mistico. (A Ross che mi ha dato una bella mano con le fonti e da cui traggo sempre nuovi stimoli spirituali)

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domenica, settembre 24, 2006

L'ultimo incantesimo

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Il matto: Mi son perso la spada per la via. Anche l’armatura lucente era ormai troppo pesante: adesso fa da rugginosa dimora ai gatti. L’anello lo tengo ancora, in ricordo di Nimue, ma tanto non mi è mai servito a niente. Per tutta la vita ho creduto potesse proteggermi dagli incanti, da quando lasciando il lago m’inoltrai per le strade dell’uomo, ma in realtà sono sempre stato inerme come adesso e, in più, tronfio delle mie illusioni.
Ti ho amato, Ti ho servito, Ti ho sacrificato la mia dignità, Ti ho obbedito sempre, Ti ho desiderato in ogni fibra come l’organismo vuole l’aria, Ti ho protetto. Per Te ho distrutto regni, ho mandato in pezzi i sogni miei e di altri, ho tradito un amico, ho imbevuto il Tuo letto del mio sangue e nel farlo, Amore, dolce e sola malìa, ho smarrito me stesso. Dovevo essere un campione, sono il ritratto di un debole.
Eppure ho camminato su un filo di spada, sepolto valenti guerrieri, danzato con le fate. Ma a che pro, se poi non sono che l’ultimo nella sfilza delle Tue vittime? Il più umile degli uomini in tutto mi equivale ed anzi forse Ti si sarà arreso con più sforzo. Chissà che sembianze avrai preso ai suoi occhi, se un dolce volto o magari un corpo desiderabile soltanto… non certo le sue iridi color rugiada e le sue labbra umide: quelle erano per me, per me soltanto, e nella sia pur disonorevole sconfitta me ne faccio vanto che, di tutte le Tue forme, hai scelto Tu, per me, la più meravigliosa. Si, Nemico mio adorato, con me sei stato abile davvero: mi hai preso l’intelletto e l’hai disintegrato nel Tuo volere, ogni senso l’hai rubato al mio sentire per dedicarlo a Te e persino il mio corpo m’hai strappato, perché sempre vagassi nell’ansia e nel disagio, incompleto e deforme, fino all’attimo in cui mi congiungevo, in Te, a me stesso.
Mira adesso la mia povertà: s’è vero -come sempre asserivo quando cavalcavo a fianco dell’uomo che costruiva regni d’idee brandendo, affilata, un’utopia- che ogni possedimento appartiene ai più che vi abitano, allora anche questa veste che indosso non è mia ma delle pulci… giro per il mondo così, tra macerie d’ideali e senza un desiderio che mi sopravviva, attendendo soltanto che Tu mi finisca… ma appare ormai chiaro che di me Ti sei dimenticato da tempo, ed è la Tua indifferenza ciò che fa più male, anche se alla Tua crudeltà ormai sono avezzo.
Non ricevendo stimoli da questo presente così vecchio, ecco che mi perdo in fantasie funeste le quali, inevitabili, portano a Te; mi fermo così a considerare il momento in cui Ti ho ceduto e come nessun’arte guerresca o magica, tra quelle che avevo appreso, mi possa esser servita a smascherarTi; infine, a furia di rifletterci, penso di aver capito come ciò sia successo: hai carezzato, Tu, o Impareggiabile, l’unica tentazione che abbia mai sfiorato la mia anima candida –l’ambizione al bene. Così hai impastato carne e fiato a costruire una creatura di specchio, che per natura chiamasse a sé la mia essenza e la chiudesse nel suo ventre senza però restituirmi mai nulla di più che la mia solitudine e, fredda al tatto, la consapevolezza di sfiorare con le dita ciò che mai avrei potuto toccare davvero, perché ciò cui appartenevo apparteneva a un altro. Ed ecco la trappola: cosa può ambire al bene se non il bene stesso? E se dunque quel bene era in me, ed io ero in lei, non era forse quel bene in lei stessa? Ma lei era del re, dunque il re possedeva il bene. In questo modo nella mia follia io ambivo a entrambi e così facendo credevo nella mia bontà. Però è venuto il giorno in cui quest’innocenza s’è disvelata mostro. In nessuna impresa mai fera più orribile ho incontrato di quella lacrima non pianta, disposta intorno alla pupilla spenta come a cullarne il dolore, nello sguardo deluso e stanco del mio signore, nascosto tra le rughe. Quanto avrei preferito che egli mi giudicasse, che mi mandasse a morte. Ma la sua incapacità di difendersi dal tradimento era talmente inclemente! La sentivo addentarmi il collo, lasciandomi senza respiro e senza parole, suscitando in me solo paura e debolezza, in me, che di quell’uomo m’ero nutrito come d’una leonessa il pargolo per poi, infame, morderle il seno. Allora mi voltai a guardare la mia signora, sperando di trovare ancora in lei un briciolo dell’antica luce, ma ancora una volta ella rifletteva la mia immagine, appunto, muta e disperata della mia scoperta.
Da allora vago in giro senza alcuna meta; a volte sono triste, a volte sono allegro e sempre senza un perché: non stimo la mia vita più di un cane, di una pietra o della stessa polvere… ed ogni tanto, a ricordarmelo, la pioggia mi copre di fango. Ogni cosa, intorno, è trascorsa… ma nelle mie muffe io appaio immutabile: anche i miei tratti han preso qualcosa d’antico ed inutile, come uno scoglio che sopravviva ad ogni maroso. E così è sempre più raro che qualche anima dabbene, accostatasi per una elemosina frettolosa, nello scorgere sul palmo della mano tremante una cicatrice profonda che sale sino alla punta del mignolo teso e immobile, per un secondo sgrani gli occhi non osando ficcarli nei miei e in punta di labbra sussurri “Sir Lan…” per poi convincersi della sua stupidaggine, piantarci forte una moneta dentro e tornare alle sue oneste verità. Molto mi piace quel momento, in cui mi convinco che un altro pezzetto di mondo è pronto a dimenticare le mie inutili gesta, e sorrido sdentato in commossa gratitudine. Poi mi giro e proseguo… un po’ più avanti, un po’ più avanti.
Nota: Inizia qui la serie di monologhi più attuale, quella che ho voluto dedicare ai Tarocchi. Da tempo mi diletto nello studio e nella pratica di quella che considero un'arte: la "lettura" delle carte. Più di ogni altra cosa ciò che mi affascina è l'universo di simboli che ogni arcano racchiude in sé, accumulato in secoli e secoli di cultura. Quel che con questa operazione voglio fare è trovare ad ogni "personaggio" degli arcani un volto, una storia tra le tante che sono atti a contenere e- nello stesso tempo- far si che il protagonista stesso del monologo possa a sua volta essere voce di un sentire diffuso, in cui potersi in qualche modo identificare. (a Beth, ancora una volta, perchè mi ha tanto infarcito di cultura celtica che il risultato -davvero inusitato per me- è questo! poi ad un'altra persona che "il y a pour quelque chose" e poi... a me)

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martedì, settembre 19, 2006

E poi, all'improvviso, le stelle

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Il paziente dell'ospedale di Jung: Un vetro che s'appanna piano. La mia vita, come qualsiasi altra dopotutto.
Chi io sia me lo sono chiesto tante volte dopo d'allora ma è come se non me lo fossi chiesto mai più, come se... sa, un punto di domanda... che si allunghi all'infinito entro di me, mi superi sempre.
Quella melodia fantastica e inebriante, quel ritmo tribale pulsante, incostante, stonato, puro, la vita, quel continuo girare di cerchi che contengono una retta, le strade, la strada, il tempo e tutte le altre cose significanti e insignificanti. Il sogno.
Si signore, sono stato innamorato.
Ma mai normalmente, nossignore: "normale", vede, io non sono stato mai -ma innamorato... come il vento d'inverno, quello gelato che spazza alberi e spolvera neve, sempre più impetuoso e violento e duro viva Dio! vivo, vivo come la notte, vivo come l'energia che contiene, che commuove, che ammazza e partorisce uomini, sempre, ad ogni istante, uomini nuovi. Innamorato come la farfalla più delicata e variopinta -sono vecchie metafore, lo so!- che vola come noi si cammina, per fatto naturale, soltanto.
Soltanto.
Innamorato soltanto.
E d'altronde, d'altronde... ero piuttosto elegante nel mio paltò blu, non crede?
La sera era fredda davvero ma poi io ero abituato, al freddo, da un po' di tempo ormai.
Di lei? Le dirò... non so nulla. Nulla ricordo, se non che forse era brutta, ma poi null'altro, perchè c'è altro che ricordo.
Ricordo i suoi occhi.
E qui dico "suoi" perchè non voglio fare la figura del folle che sono ma in realtà quegli occhi appartenevano soltanto a loro stessi, erano due entità autonome, distaccati da tutto e silenti, come due laghi mobili neri al centro o, come dice una certa canzone, "occhi che ragionate"... Ed io, dal primo momento in cui li vidi, vi trovai la pace: in realtà non era che guerra nascosta da un momentaneo appagamento del desiderio, eppure più dolce dell'oppio stesso m'appariva, il bene da me più ambito, più ricercato tra le macerie di un'anima già stanca, affaticata, vinta.
La resa. Che parola delicata!
Quest'amabile subire, questo lasciarsi scorrere, fino alla fine... lo vede? già era una mia inclinazione! E abbandonarsi ad essi senza proferir parola, guardandoli e solo guardando divenir contento: questa era facile avventura!
Io l'amavo questi occhi perchè erano "belli et fieri" ma poi aspri e ronzanti come la selva mediterranea, mitici come satiri silvani, intensi come profumi orientali, veloci e irrequieti come bambini nel gioco, densi come fumo d'incenso, spirituali come lo spirito stesso.
A volte ancora ritornano, nelle mie notti d'ombra in questa sobria, linda, bianca stanzetta... ed io faccio il più innocente dei sogni sognando di chiuderli e baciarne le palpebre -e mai nessun sogno mi è più reale di questo, ché sento nella saliva il loro sapore, addirittura, e le labbra poggiarsi sul lieve tremito e le lacrime scaldarmi gli occhi e così, mentre eternamente protraggo l'apnea del mio cuore (e preferirei morire piuttosto che staccarmi da essi), d'improvviso, sempre troppo presto, essi svaniscono dissolvendosi, mentre ripidamente ascendo ai livelli della realtà e mi ritrovo nell'aria fredda di primo mattino, a protendere ancora le labbra al nulla.
Distanti.
Il destino è una macchina strana: dopo d'allora non mi chiedo più dove potrà portarmi... fatto sta che io avevo chiesto, disperatamente, e mi era stato dato. L'amore: trovato.
Ma come!
E' crudele la forma che supera di mille volte la sostanza ed io voglio credere, debbo credere, che quegli occhi in realtà fossero prigionieri, schiavi di una mente crudele abbastanza da dotarli di un marito banale, spesso dimentico di tributar loro anche solo uno sguardo perchè troppo impegnato ad andarci a letto... eppure io -accecato- speravo ancora e m'illudevo e tremavo al pensiero che alla fine, dopo tanti fulmini spercati, questi avessero capito, che, consumati dai miei sguardi, avessero accettato.
Un giorno o l'altro, nell'eternità, io mi decisi. (Ecco dottore, sta per finire il "drammone d'amore").
Andai da lei veloce, veloce glielo dissi: alla morte con coraggio! ...Quasi glielo sbattei in faccia il mio amore -in maniera poco educata in verità, tutto il contrario rispetto ai miei modi abituali- e dovevo sembrar Cambronne che urla "merde!" agli inglesi perchè poi mi ritrovai fucilato.
...Un moto di paura, misto a disgusto, misto a sorpresa e ferma disapprovazione moralistica ma-oh!- di quel moralismo così becero, basso, ignorante! ...condito di sfuggente occhiatina alla croce in seno e sfociante in un dolce, tremendo, crudele, ipocrita sguardo che riassumeva il tutto in una pruriginosa pietà. E basta.
Quella limpida innocenza con la frusta in mano, non tanto il diniego, mi decisero a chiuderla lì e mai, dottore, proposito fu più ferreo perchè niente pareva trattenermi più in quel corpo e neppure il disgusto riusciva a occupare la mia mente quanto il nulla, il più nero nulla che in pratica era già morte.
E allora eccomi là, nel mio paltò blu, perfettamente curato ed elegante, scendere dalla vettura a Ruperchtsplatz, sorpassare la nostra chiesa più antica resa ancor più vecchia dalla notte e avviarmi, il naso arrossato dal freddo, verso Franz-Josef Kaiser strasse, percorrendo Vienna che se ne infischiava di me, Vienna non ancora del tutto ben illuminata, puntando verso il Marien bruche.
Perchè proprio lì? esattamente non so... da un lato era più isolato (sull'altra sponda il Prater animato solo da prostitute tranquille) ma più che altro io sono sempre stato -e resto- un romantico sentimentale che, tronfio della sua stessa decadenza, aveva deciso di buttarsi dal ponte di Maria... dunque di certo molto era dovuto al nome; ad ogni modo... nessuna pietra al collo, ovviamente... di suicidi quale quello che volevo per me se ne registra una gran quantità all'anno e sapevo perfettamente che corrente e gelo sarebbero di certo bastati...
L'aria da neve del diciotto ottobre millenovecentotrentadue, i miei guanti di pelle imbottiti, documenti per il riconoscimento nel taschino interno della giacca e la balaustra da scavalcare dinanzi a me. Sa dottore, quei gesti meccanici che uno fa per abitudine... una folata di vento principiava a rubarmi il cappello... a quel punto che contava? -ma lo tenni ben fermo calcandomelo in testa con la mano; poi, sempre automaticamente, mi posi a sedere sul cornicione, mi girai e i miei piedi galleggiavano nel vuoto.
Lo vede dottore? Lei è ancora così giovane (non ostante sia già -a detta dei più- un "dottorone", tanto che le hanno dato proprio me da studiarsi perbenino) che non si capacita della mia attuale lucidità ma, vede, è solo l'effetto che precede il sonno in un caso molto strano di schizofrenia e domani se ne renderà ben conto quando mi vedrà, spento e solo, morire in un angolo di letto come la più trista delle figure inseguendo con lo sguardo mille scintille aeree per poi gettarmi disperatamente a ridere, disperatamente, e a guardare, guardare tutto quello che c'è intorno perchè tutto quello che c'è è vita e si muove... però non urlo io -basta che lei non mi tocchi- né mordo: sono un matto "buono". Lei mi osserva in un modo... non mi guardi così: è così che mi sono perso, per sempre... si salvi, lei, si volti dall'altra parte.
Che era notte l'ho detto. Una bellissima notte -respiro- una notte stupenda, frizzante... chissà se mi capiterà più una notte del genere per morire... ma che pensieri truci! suvvìa, un po' di allegria: adesso arriva il bello!
Il nero nel mio cuore, nella mia mente, intorno a me, che si spandeva come nebbia... uno stato -o forse un non-stato- che promanava dalla mia persona come un'aura e poi si svaporava attorno ingrigendo di sé l'aria fredda... il senso del vuoto... nulla per cui valga la pena di vivere, neanche le lacrime, neanche più la disperazione... il vaso di pandora vuotatosi del tutto: neanche più la speranza.
Giù. Vuoto chiama vuoto, vuole vuoto. Non avevo mai alzato la testa da quando ero in quello stato, neanche per sbaglio.
Dottore, i miracoli esistono: adesso ne sono sicuro. Crediamo di poterne fare a meno, crediamo di poterli ignorare o sminuire oppure a volte neanche li riconosciamo -i miracoli, in fondo, sono piccole cose- ...io quella notte ebbi il mio minuscolo miracolo privato: alzai la testa.
E poi, all'improvviso, le stelle.
Signore! Che stelle! Le stelle più belle e brillanti dell'universo s'erano date tutte appuntamento al mio capezzale quella notte! Quale immensità, quale siderale silenzio, quale profonda, profana antichità, quale saggezza, quale amore, quale crudeltà, quale infinito baciarsi di opposti mi si parava davanti in tutta la sua perfetta imperfezione!
Signore! Quale ira!
Un infermiere bastardo ebbe a dirmi una volta, durante una crisi di demenza di cui purtuttavia serbo pallida qualche memoria, che mi si era "fritto il cervello"... ebbene io qui riconosco che egli aveva perfettamente ragione! mi si è in quell'attimo realmente "fritto il cervello"! E sfido chiunque a provarmi il contrario!
Dottore... lei non è altro che un povero dottore poco malato, e con tutta la sua razionale coscienza dal ritmo per nulla intermittente non vale un millesimo di me che sono il nulla, di me che quella sera ho perso me per sempre, per sempre... e sono stelle, solo stelle, già stelle.
Dovevo morire? Forse dovevo morire, forse quegli occhi mi avrebbero dovuto sterminare, oppure avrei dovuto vivere e vivendoli dimenticare... ma io già sono vita, dottore, vita all'essenza, energia cosmica... e quegli occhi son divenuti parte di me, come bene e male, come ogni cosa... dottore, Signore! Io sono spazio infinito!
Lo vede? lo vede? già il suo volto appare più sollevato: finalmente inizia il delirio! Non lo capite proprio voialtri... non lo potete vedere, stolti! Io sono tutto, quindi sono nulla, e il corpo che mi contiene è solo un'infinitesima parte di quello che sono: io sono!... non sono.
Ma è solo per questo che mi trovo qui, le lacrime agli occhi per l'infinita commozione, proprio come mi trovò la polizia mentre danzavo nudo, ridendo, in mezzo alla strada... tutto gira, tutto gira... mentre tutto si mantiene così stabilmente, solidamente fermo... posso sentirlo, il moto planetario e quello degli astri, e quello dei corpi e quello delle creature... lo sento, potente e prepotente, fin nelle mie corde: è nelle mie ossa!
Si, ha ragione... potevo pure morire, già che mi trovavo... ma che senso ha uccidersi se poi sono già finito e poi non finirò mai comunque? Me lo dica lei, dottore!
Ah! Ritorna quel ronzio insopportabile, quel mal di testa che mi straccia il cranio!
La prego, sia gentile, il calmante.
Nota: Scritto a diciott'anni. Come a questo punto si può vedere raffrontando i vari brani, il tema della follia è centrale in me. L'idea per questo, in particolare, mi è venuta leggendo per caso, in una prefazione ad un libro, che Jung aveva descritto in uno dei suoi testi il caso di un uomo che assumeva essere della stessa sostanza delle stelle. Ho cercato invano quel passaggio ma ne ho scritto comunque. Penso che si percepisca benissimo l'influenza delle mie letture del tempo, in particolare Bulgakov, Durenmatt e Mann. Mi è piaciuto anche prendere il cliché del "suicida malato d'amore" e stravolgerne la trama proprio alla fine.. magari un giorno questo gusto mi porterà alla novella surrealista, chissà. Nel frattempo, con questo ho esaurito tutti i miei "vecchi monologhi", che non ho cambiato molto nel trascrivere qui anche se in gran parte non ne condivido più l'impostazione. Da adesso in poi il blog verrà aggiornato solo per contenere i miei lavori più recenti. (Ad una persona specialissima, che mi ha rivoluzionato la vita e che ancora non ho dimenticato)

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sabato, settembre 16, 2006

Nel labirinto

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Teseo:
Mi sono perso.
Riesco ancora a sentire il fiato caldo che sa di sangue
rappreso, gli ispidi peli da belva sudata, il battere infernale
del cuore che vola dal petto
ma non lo sguardo, indimenticabile, che forse era il mio...
E comunque ora morto.
Sono qui.
Potessi almeno capire se é giorno o notte,
oppure un'interminabile alba, o forse
un interminabile crepuscolo...
ma persino il sale stesso
di questi concetti mi sfugge
e nulla mi é più lontano
di quello che mi è vicino.
Non so dire di sicuro
nemmeno se sono seduto o all'impiedi
o forse, chissà, sto camminando
e non lo so
e le incognite sono ovunque,
nelle incognite stesse,
perché io sono un grande ignorante.
Le parole stesse
mi terrorizzano:
sono come questo posto,
nuove di zecca, vecchie di secoli,
sempre mutabili e quindi eterne...
per quanto mi riguarda,
in definitiva,
potrebbero essere questo posto stesso
e di più non mi ci soffermo a pensare
perché sono già stato pazzo
e poi mi sono ucciso.
Potrei credere d'essere un viaggiatore,
comunque non so mai cosa imparo
e per adesso tutto ciò che mi viene in mente é un pocket coffee
che quando ero piccolo non mi piaceva affatto
mentre adesso mi sgranocchio volentieri,
sempre, però, se sono cresciuto.
O nato, oppure...
ma sinceramente me ne frego delle filosofie
perché, anche se é un bel problema,
adesso non mi pare di amare proprio nulla
e anche nulla è un bel problema
epperò non me ne frega niente lo stesso
in quanto che forse sono per noia.
Ma amo tanto la vita
-quel che sia-
solo che ogni tanto mi lascio suggestionare
e poi questa specie di amnesia non mi dà pace
mi prende come un'onda lunga
portandomi dove non si tocca
e può sembrarmi persino
di annegare volentieri...
però poi mi trascina, nuovamente,
su lidi che ricordo conosciuti
ma che poi non riconosco
e allora penso a quanto debbano esser state piacevoli
le egoistiche lacrime che vi ho pianto
però poi ho nostalgia degli abissi
e tanta voglia di affogare in un destino prestabilito,
nel mio regno intestino,
come un feto dentro una puerpera.
Da giovane mia mamma mi ha fatto alzare una pietra,
sotto c'era una spada ed io ero un eroe
poi sono cresciuto ed ho mangiato molti fanciulli
poi ho vagato tanto,
tanto,
poi mi son morto
-e adesso dove sono finito?
Il tutto è andato complicandosi
e avrei davvero finito
(aggiunto tutto il resto, non c'è molto più di me in definitiva)
se non fosse per il filo.
Il filo è una cosa importante.
Questo lo so ma chiedermi il perchè vale quanto il chiedermi
se e perchè io debba morire...
che senso ha? che senso non ha?!
...ma perchè solo sofismi?!
Il filo è l'origine.
Lo vedo, che si perde oltre le mie spalle indefinitamente,
oltre ove persino non riesco a guardare,
oltre,
eppure é già nella mia mano
così com'é altrove,
come se fosse ovunque
però non lo lascerò mai andare:
è davvero tutto quello che ho, se mi appartiene,
ed é ormai come una parte stessa del mio corpo,
fuso nella carne del palmo;
però non é sempre stato mio
e mi é stato donato
come se qualcuno potesse donarmi me stesso:
per questo é tanto prezioso,
come una meravigliosa
ossessione...
finalmente qualcosa di cui vantarsi.
Io credo, poi, che porti da qualche parte...
però avanti o indietro o qui,
non so.
E prima o poi bisognerà partire,
incominciare o ricominciare,
dal momento che oramai ho costruito
o forse trovato
o imitato, pure,
una mia fede.
Riconsidererò il sole adesso
e tutte le mie stelle e poi
mi ricorderò di ringraziare
qualcosa,
forse qualcosa che ho sacrificato,
ma non può morire di sicuro per sempre.
Come me,
che potrei essere un bravo funambolo
sul filo
che assume forme strane
e a volte non è mai sempre del tutto dritto
né del tutto curvo
e cadere non ha importanza,
é cosa da mettersi assolutamente in conto,
ma poi forse alla fine non si cade mai...
comunque mi dà fastidio divagare
così a volte -sempre e mai-
detesto.
M'innamoro.
Qualcosa/uno mi potrebbe salvare.
Accenderò un fuoco,
potrei diventare un bel fumo
che si perde da qualche altra
parte...
raggiung...
Nota: Questo è un brano più recente che risente un po' di dottrine simboliste e un po', nella forma, del teatro futurista (n.b. il formato del testo imposto dal programma lo invalida pesantemente: nell'originale infatti ogni riga si dispone in maniera differente e autonoma rispetto all'ordine del paragrafo riempiendo in modo sinuoso la pagina). Volontariamente non ho rispettato alcuna regola grammaticale e ortografica cercando di badare più che al senso compiuto di ogni periodo alla sua musicalità e volendo trasmettere un senso di disordine e ricerca. Ogni confine sembra incompiuto, indefinibile eppure familiare. (A Sandra e Clara, che ci hanno creduto prima di me)

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